“Contro un bipolarismo muscolare e inconcludente”

“Contro un bipolarismo muscolare e inconcludente”

Enrico LettaEuropa anticipa il testo dell’intervista a Enrico Letta che uscirà nel nuovo numero della rivista dell’Arel, diretta da Mariantonietta Colimberti.

Viste le circostanze, mi sembra inevitabile aprire questa intervista con un riferimento personale. Quando abbiamo messo in cantiere il numero sul “Caos” eri il direttore di questa rivista. Avresti mai immaginato che qualche mese dopo avresti rilasciato questa intervista da Palazzo Chigi?

Certamente no. Il risultato elettorale, l’incertezza della fase immediatamente successiva, la difficoltà di trovare una soluzione sostenibile in tempi rapidi: nulla lasciava presagire in quei giorni un esito di questo genere. Del resto, come ho più volte ribadito, ho creduto e mi sono impegnato fino in fondo per un governo diverso. Un esecutivo di centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani. Ciò non toglie, naturalmente, che io viva oggi questa esperienza con una grandissima determinazione a fare bene. È un onore servire il proprio paese. Ed è un onore di cui avverto tutta la responsabilità, a maggior ragione in una stagione così drammatica, di disagio e fatica, per l’Italia e per gli italiani.

È il caos che ti ha portato qui?

È la nomina del capo dello Stato che mi ha portato qui, che mi ha portato a proporgli una squadra di governo alla quale il parlamento, condividendone il programma, ha accordato la fiducia. È la Costituzione che ha guidato il percorso, sia pure in una situazione eccezionale e molto diversa da quella per la quale, come dicevo, mi ero battuto in campagna elettorale. Questo per sottolineare come, in un frangente politico particolarmente complicato, non sono comunque stati il caos e il disordine a determinare gli sviluppi. Pur di fronte a un risultato elettorale complesso, a un quadro parlamentare incerto anche perché frutto di leggi elettorali diverse per due Camere che hanno invece le stesse funzioni, l’impianto costituzionale ha tenuto. Il che non vuol dire che non vada migliorato, anzi. Per questo abbiamo subito avviato un percorso di riforme istituzionali alla cui riuscita in tempi certi ho espressamente legato la sorte di questa esperienza di governo.

Il caos attuale della politica italiana è colpa solo della legge elettorale?

Il Porcellum è un monstrum che non garantisce né rappresentanza né governabilità. Una vergogna, peraltro a rischio di incostituzionalità, che va superata al più presto. Mi sono impegnato a farlo dinanzi al parlamento. Ciò detto, non dobbiamo cercare scorciatoie e cadere nell’errore di considerare la legge elettorale la causa unica di tutti i mali della politica italiana. È un abito – informe, slabbrato, da sostituire – su un corpo che, però, anch’esso sempre di più svela la propria inadeguatezza e pesantezza rispetto alle trasformazioni della società italiana e, dunque, anche dell’elettorato. Penso all’insostenibilità del bicameralismo paritario, penso al numero eccessivo di parlamentari, penso alle ingessature della nostra democrazia decidente. Riassumendo: il caos è ingenerato anzitutto da un sistema non all’altezza delle sfide con le quali un paese come l’Italia deve oggi misurarsi. Tanto più dopo vent’anni di bipolarismo muscolare e inconcludente che ha inibito ogni serio tentativo di riforma.

Il governo tecnico di Monti è arrivato per evitare che l’Italia cadesse nel baratro. Col senno di poi e prescindendo da eventuali ambizioni personali, peraltro in quel momento non collegabili a quegli eventi, non pensi che sarebbe stato meglio andare al voto?

No, resto convinto dell’opportunità di quella scelta. E resto convinto che il paese fosse effettivamente a un centimetro, a un millimetro, dal baratro. Non enfatizzerò mai abbastanza la convulsione di quei giorni, lo spread alle stelle, l’attacco speculativo sui mercati. Il governo Monti ha agito in condizioni di emergenza e ha fatto sì che la superassimo, l’emergenza. Senza quell’azione – durissima ma purtroppo necessaria, date le condizioni – oggi, ad esempio, l’Italia non sarebbe fuori dalla procedura per deficit eccessivo dell’Unione europea.

C’è più caos nella politica italiana o nel Pd? E quale ti appare più risolvibile?

Quello del Pd è un progetto straordinario, unico, che in questi anni però ha vissuto troppi stop and go: giorni esaltanti sporcati da delusioni amare, docce fredde solo parzialmente ricompensate da formidabili occasioni di partecipazione e democrazia. Certamente, quanto avvenuto per l’elezione del presidente della repubblica, lo scorso aprile, costituisce a mio parere un punto di non ritorno. Si sono messe a repentaglio le nostre stesse ragioni fondative, si è contaminato un momento solenne come la scelta della prima carica dello stato con piccole contese interne o calcoli personalistici. Confido che l’esperienza serva a tutti come monito. Così come confido che la partita congressuale alle porte si riveli aperta, franca, costruttiva. Il Partito democratico – per la sua stessa fisionomia di grande e plurale forza riformista – può e deve essere un elemento di stabilità della politica italiana, non un catalizzatore del caos e della frammentazione.

Nelle situazioni di caos bisogna mettere ordine, ma dopo il caos di solito l’ordine non è mai quello di prima. Il momento politico- istituzionale attuale può essere foriero di qualcosa di nuovo?

Sì, se per “qualcosa di nuovo” s’intende un approccio diverso, meno bellicoso, al confronto tra parti. Questo governo riunisce esponenti di formazioni che negli scorsi anni si sono fronteggiate aspramente, senza produrre nel complesso un gran bello spettacolo. Colpa dei nostri limiti, ma anche delle regole del gioco e del contesto nel quale si è svolto il confronto: un impianto costituzionale architettonicamente splendido, ma da ammodernare, un po’ come certi nostri stadi. C’è bisogno di rizollare un terreno di gioco appesantito da troppe battaglie e di regole che favoriscano la fluidità del confronto e la certezza del risultato.

Se il governo dura e la maggioranza Pd-Pdl si consolida, escludi che possa esserci un rimescolamento (e dunque una ridefinizione) nei partiti?

Ho detto e ripetuto molte volte che il mio è un governo d’eccezione. Perché eccezionale era la paralisi nella quale era precipitato il sistema istituzionale e politico con l’impasse del voto per il capo dello stato. Una paralisi dalla quale ci ha sollevato, da ultimo, solo l’intervento del presidente Napolitano. Ciò che auspico – conclusa l’esperienza di questo governo – è che la democrazia italiana possa ritornare a un sistema dell’alternanza normale, di stampo europeo, lasciandosi però alle spalle le incrostazioni di una conflittualità permanente che ha bloccato il paese e nei fatti condizionato la qualità del confronto, la capacità amministrativa, il raccordo tra politica e pubblica opinione.

Parliamo degli obiettivi del tuo governo: quali sono quelli prioritari? Dal giorno del discorso programmatico a oggi è cambiato qualcosa? Ti sembrano più vicini o più lontani?

È trascorso troppo poco tempo per ritarare eventualmente gli obiettivi. Non posso dunque che confermarli, forte anche del percorso fatto in queste settimane. Alla lotta alla disoccupazione giovanile – la nostra prima priorità – stiamo dedicando ogni sforzo, ogni colloquio, ogni incontro con i leader europei. Mi pare che la direzione sia tracciata, sia a livello nazionale sia in sede europea e internazionale.

Sia nelle tue iniziative politiche precedenti all’incarico di governo sia da presidente del consiglio hai molto insistito sul ricambio generazionale. È un facile slogan o ritieni che i giovani in quanto tali siano portatori di contenuti positivi per migliorare la nostra società? E se sì, quali?

Penso da sempre che i giovani siano portatori di enzimi positivi. Lo so: se ne discute ormai da anni, con accenti e stili diversi, ma sempre in funzione di un rinnovamento complessivo della classe dirigente di questo paese. Ora, almeno nella politica, un primo rinnovamento c’è stato. Una generazione – quella nata dopo gli anni Sessanta – è alla prova. Sono orgoglioso che il mio governo sia espressione di questo ricambio, ma sono altrettanto consapevole che il rinnovamento non può essere letto solo sotto la lente anagrafica. L’enzima è tale se accelera la modernizzazione dell’Italia, oltreché se incoraggia un cambiamento di approccio, anche culturale, ai processi economici e sociali. L’enzima è tale se immette ossigeno nel sistema. In caso contrario, il ricambio è solo maquillage.

Quale mancato obiettivo considereresti il fallimento più grande?

Non dare risposte concrete, tangibili, alla vergogna della disoccupazione dei giovani in Italia. Milioni di aspettative infrante: una generazione intera lasciata sulla graticola di un cambiamento perennemente annunciato, mai arrivato. Mi sono scusato, a nome della politica, per questa dissipazione di energie, competenze, speranze. Credo fermamente che non possiamo più permetterci di fallire. C’è in gioco il futuro del paese.

Ti ha gettato nel caos – nel senso del panico che coglie quando arriva un evento inaspettato sia pure positivo – il diventare ministro la prima volta, quando dopo appena un anno sei stato nominato all’Industria o il 24 aprile di quest’anno (anzi il 23 sera, se è vero quanto racconta qualche collega ben informato)?

Tre sensazione effettivamente molto diverse tra loro. Alle Politiche comunitarie, insieme alla sorpresa, c’era senza dubbio molto entusiasmo, anche perché si trattava di una materia che avvertivo di poter maneggiare con cognizione di causa. Forse l’incarico per il quale mi sono sentito personalmente meno pronto è stato, invece, quello di ministro dell’Industria. Ma ricordo con particolare riconoscenza, e nostalgia, il supporto costante e prezioso del professor Fabio Gobbo, allora a capo della mia segreteria tecnica. Quanto a Palazzo Chigi, certo di grande ausilio per me si sta rivelando l’esperienza da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio fatta dal 2006 al 2008 al fianco di Romano Prodi.

C’è caos anche in Europa?

C’è crisi in Europa. E la crisi reca con sé caos, disillusione, rabbia. Soprattutto, in questi anni ha ingenerato una profonda e radicata disaffezione nei confronti delle istituzioni comunitarie. È questo il pericolo che mi preoccupa maggiormente: l’erosione della fiducia nei confronti del progetto dell’integrazione. Si tratta di una tendenza che abbiamo il dovere categorico di provare a invertire. Ribadendo, in tutte le occasioni e in tutte le sedi, che senza Europa l’Italia non ha futuro. Così come non hanno futuro gli altri paesi europei, anche quelli che meglio sembrano aver risposto alla crisi.

Se avessi una bacchetta magica e potessi risolvere un solo grande problema dell’umanità e uno del nostro paese cosa faresti?

Gli Stati Uniti d’Europa. Subito. E sarebbe la risposta più ambiziosa sia a un grande problema dell’umanità sia a un grande problema dell’Italia. Il punto è che la bacchetta magica, sfortunatamente, non ce l’ha nessuno. E un obiettivo così alto – certamente l’unica nobile idealità appannaggio delle nostre generazioni dopo la fine rovinosa delle ideologie – va perseguito passo dopo passo, con molta costanza e altrettanta perseveranza.