Germania, potere non significa egemonia

Germania, potere non significa egemonia

A staff member prepares German flags . REUTERS RTX1RFTQ

Enrico Letta, Handelsblatt, 21 settembre 2017

 

Qual è lo stato attuale delle relazioni tra Germania e Italia? L’immagine forse più efficace per rispondere è quella che richiama un matrimonio in crisi, spento e con poco mordente. Un rapporto all’interno del quale si fatica a tracciare orizzonti per il futuro e spesso si lascia sbiadire perfino la memoria del passato. Lontane le “affinità elettive” tra padri fondatori degli albori dell’integrazione; appannata la percezione di un forte rispetto reciproco, come quello che ha favorito, decenni dopo, l’ingresso dell’Italia nella moneta unica.

Queste difficoltà si registrano proprio nel mezzo di uno dei tornanti più complessi della nostra storia contemporanea. Mai come oggi sarebbe necessaria una partnership ferma e animata dal mutuo interesse a rafforzare l’integrazione Ue. Invece, a dispetto della portata della sfida, di un europeismo del genere, improntato a un genuino spirito comunitario ma anche alla pragmatica costruzione di solide relazioni bilaterali tra Paesi fondatori, pare essersi persa traccia in questa strana estate del 2017. Un intervallo di tempo come congelato tra il sospiro di sollievo tirato per la sconfitta dei movimenti antisistema in primavera e l’attesa per gli importanti appuntamenti in agenda dall’autunno, a partire dal voto tedesco.

Affrontare questo percorso per inerzia vuol dire rassegnarsi a priori al fallimento. È proprio nei mesi prossimi, invece, che bisogna dare una sferzata al rilancio del progetto europeo. E ciò, appunto, anche attraverso una nuova stagione nei rapporti tra Germania e Italia. Che fine ha fatto la sintonia del passato? Sarebbe ancora utile ai rispettivi interessi nazionali e, di riflesso, a quello europeo? Per rispondere non bisogna nascondersi i problemi. Primo punto: il nesso tra leadership ed egemonia non è oggi consequenziale. La posizione dominante della Germania da sola non si traduce in una funzione di vera guida politica. È un primato senza legittimazione, che non giova all’Europa e non giova più neppure a chi lo detiene, cioè agli stessi tedeschi.

Di recente, una ricerca Chatham House sul ruolo predominante di Berlino in Europa lo ha confermato, esplorando la differenza di percezione, in tutto il continente, tra i popoli da una parte e le élite dall’altra. Risultato: l’opinione è risultata negativa per i primi, positiva per le seconde. È evidente che alla Germania occorrono relazioni bilaterali migliori per allargare la base del proprio consenso e rafforzare una guida non solitaria. Quella con l’Italia era ed è utile per tutti, come dimostra la vicenda delle migrazioni. Vale a dire un’emergenza condivisa e molto complessa, per far fronte alla quale i Paesi hanno bisogno l’uno dell’altro in un comune sforzo volto a fissare il cambio di passo indispensabile su questa linea di policy.

Secondo punto: nei rispettivi dibattiti domestici l’investimento sul rapporto bilaterale è scarso. Ci sono stati, è vero, esemplari tentativi per restituire slancio alla relazione a livello culturale ed economico. Ad esempio, i Presidenti italiani della Repubblica, Napolitano prima e Mattarella poi, hanno coi loro omologhi Gauck e Steinmeier lavorato bene per rinvigorire il legame. Anche lo sforzo dei due governi in carica è senz’altro positivo.

Tuttavia, si tratta di spinte contro corrente. Perché la corrente oggi prevalente è quella che spinge esponenti politici tedeschi a caccia di voti ad ammiccare al caos strutturale italiano e praticamente tutti i leader politici del mio Paese, sia pure con sfumature diverse, a brandire l’egemonia tedesca come il capro espiatorio dei mali italiani attuali. In entrambi i casi si fa speculazione populista attraverso la costruzione di un “nemico esterno”. Il tutto senza ammettere una verità incontestabile: i problemi dell’Europa non si risolvono spingendo l’Italia verso il caos o la Germania verso l’isolamento.

Piuttosto, le storture possono correggersi solo riequilibrando la costruzione europea, oggi schiacciata su una dimensione monetaria a scapito dell’integrazione politica ed economica. L’arroccamento di una parte dell’establishment tedesco su un approccio meramente contabile e rigorista alle riforme non ha aiutato questa trasformazione e ha finito per far male all’Europa unita. L’opposizione sistematicamente critica della Bundesbank alla politica monetaria espansiva di Mario Draghi, senza contare la recente, pessima, decisione della Corte di Karlsruhe contro la Bce, hanno minato alla base la coesione tra Paesi necessaria per il rilancio che tutti vogliamo.

Al contrario, l’obiettivo non più rinviabile deve essere, appena dopo le elezioni tedesche, far sì che l’euro diventi sinonimo non di instabilità o disuguaglianza, ma di crescita per i popoli europei, per tutti i popoli europei. Allo stesso tempo, per facilitare il riequilibrio, l’Italia – come pure la Francia – deve dimostrare di saper gestire i propri conti pubblici con serietà, in primis sulla riduzione del debito.

Tutto, a ben vedere, ruota attorno a questo scambio tra i principali Paesi dell’area Euro. È qui peraltro che sta il senso più profondo dell’auspicio su cui Mario Draghi insiste da tempo. Nel rapporto tra Stati occorre tornare alla complementarietà tra i principi di “responsabilità” e “solidarietà”. In ogni ambito non può pretendersi la prima senza concedere la seconda. Di certo, se il binomio regge, il risultato è un mix di fiducia e condivisione piena dei benefici derivanti da una cooperazione efficace.

Dopo tutto, le 4 crisi che hanno scosso l’Europa in questi anni – economica e sociale; di sicurezza e lotta al terrorismo; di legittimazione della membership con la Brexit; di gestione della emergenza migranti – non sono ancora risolte. Germania e Italia, solo tornando a cooperare davvero, possono contribuire a trovare le soluzioni più utili all’intera Unione.