“Intesa a ogni costo. Dalla rottura i danni maggiori per l’Italia”

“Intesa a ogni costo. Dalla rottura i danni maggiori per l’Italia”

 
Intervista di Eugenio Fatigante a Enrico Letta. Avvenire, 2 luglio 2015

A oltre 16mila chilometri di distanza la crisi greca non perde nulla della sua drammaticità. Anche da Sidney Enrico Letta segue ogni passo del negoziato arenatosi fra Atene e i suoi creditori, fa arrivare un «sostegno forte» a Jean-Claude Juncker e all’ultimo sforzo di mediazione del presidente della Commissione Ue e ci tiene a lanciare un messaggio netto: «Un accordo fra la Ue e la Grecia va perseguito a ogni costo. Perché una rottura costerebbe almeno 10 volte di più di qualunque intesa. E – attenzione – il costo maggiore sarebbe proprio per l’Italia». L’ex premier spodestato (da Renzi) e ormai quasi ex deputato del Pd (ha presentato le dimissioni) sfrutta le opportunità concessegli da quella nuova vita che s’è inventato per riscoprire la passione politica (partendo dagli studenti: terrà una scuola di politica all’istituto di Sciences Po, a Parigi): «Sono in Australia perché l’università di Sidney mi aveva invitato da anni, ma non avevo mai trovato il tempo per andarci. Sto tenendo un ciclo di conferenze proprio sull’Europa». E da questo osservatorio particolare esordisce con un aneddoto che già indica come la pensa il primo capo di governo della legislatura in corso: «Curiosamente qui è dove ha cominciato la sua avventura accademica Yanis Varoufakis (l’attuale ministro delle Finanze greco, ndr), da giovane docente di economia nel 1989. E mi dicono tutti che non ha lasciato un buon ricordo…».

Letta, lei lo scorso gennaio tenne una Lectio magistralis a Roma in cui sostenne che era «essenziale evitare lo scontro fra Europa e Grecia». Eppure, proprio a quello siamo arrivati. Amareggiato? 

Molto. E trovo particolarmente interessante osservare questo crinale difficile della nostra vecchia Europa da questo punto di vista sostanzialmente asiatico, perché è a quel continente che guarda l’Australia.


Cosa vede da lì?

Qui non si percepiscono tante sottigliezze alle quali si dà invece tanta importanza nel dibattito europeo. Si va all’essenziale e si stenta a comprendere come possa essere una cosa così seria un problema che riguarda appena il 2% del Prodotto interno lordo europeo.


E lei cosa risponde?

Cerco di far capire quello che voglio dire anche con questa intervista: l’uscita della Grecia dall’euro sarebbe l’inizio del declino per il disegno europeo. Un declino irreversibile. Non vedo come si possa far uscire questo Paese e procedere tranquillamente facendo finta di nulla. La terza crisi greca in 7 anni sarebbe grave, il suo effetto domino sarebbe incalcolabile. Più che per le dimensioni dell’economia greca in sé, per il significato che avrebbe questo evento, a partire dalla mancanza di fiducia reciproca che si instaurerebbe fra le istituzioni comunitarie e i governi nazionali. Per questo bisogna scommettere su una sola casella: quella dell’accordo.


Intanto domenica ad Atene si va al referendum. Non ha comunque una valenza positiva ridare la parola a un popolo, dopo le tante accuse di “tecnocrazia” piovute su Bruxelles?

Al referendum è stata data volutamente dal governo una drammatizzazione che non ha senso. Il popolo greco si è espresso appena cinque mesi fa e ha dato a Tsipras un mandato per negoziare al meglio la permanenza nell’euro. È il governo di Syriza che si è comportato malissimo, in modo poco responsabile e lineare e non utile in fondo nemmeno alla popolazione.

Non è troppo critico su Tsipras?
Non credo. È stato un errore indire il referendum quando c’erano ancora dei margini. Ed è stato ancora meno serio organizzarlo in tre giorni su una domanda nemmeno chiara al 100 per cento. Tsipras ha dimostrato poi la sua debolezza quando la reazione dei correntisti, che si sono subito messi in fila ai bancomat, l’ha spinto a ricercare uno spiraglio di trattativa. La storia di questi mesi e il suo esito a oggi dimostrano che lui e Varoufakis non hanno mai davvero voluto l’accordo, puntavano solo a ottenere più fondi dai creditori. Ora spero che lui – o chi per lui – ci ripensi perché siamo davanti a un bivio: o la trattativa o per i greci si riapre un Medio Evo.


Questi tempi supplementari non dimostrano però che il fronte dei creditori – Ue, Bce e Fmi – poteva concedere di più sin dall’inizio?

Secondo me, no. Non c’è mai stata una proposta solo da “prendere o lasciare”. Sono sicuro che la disponibilità a negoziare ci sia sempre stata, anche su un haircut del debito greco (cioè su una qualche forma di taglio dell’importo, ndr). D’altronde va in questo senso anche l’ultimo tentativo di Juncker, cui va il mio forte sostegno per quanto sta facendo.

La sento molto preoccupato. È così?

Lo sono perché una rottura avrebbe un costo almeno 10 volte maggiore di qualunque intesa. E il costo sarebbe più grave proprio per noi. Per questo l’Italia deve mettere il piede nella porta di quest’ultimo spiraglio di mediazione e fare di tutto, usando la sua forza e autorevolezza, per non farla chiudere.


E l’Italia ce l’ha oggi questa forza?

Non mi faccia entrare nella polemica politica.

Perché i guai maggiori sarebbero per l’Italia?
In primo luogo perché la nostra esposizione verso la Grecia è la maggiore in rapporto al Pil, più anche di Germania e Francia. Poi perché un default avrebbe un impatto sul deficit che ci farebbe sballare i conti, ci obbligherebbe a una manovra correttiva e particolarmente rigorosa per scongiurare l’idea che il prossimo, potenziale bersaglio della crisi dell’euro siamo noi. Infine perché vedremmo sfumare in un sol colpo gran parte delle 5 condizioni – petrolio basso, cambio buono, bassi tassi d’interesse, più l’Expo e il Giubileo – di quella insperata congiuntura malgrado la quale assistiamo a una ripresa ancora stentata. Come in un gioco dell’oca torneremmo alle condizioni del 2012. E apriremmo a un’autostrada per l’affermarsi sempre più netto dei populismi nella politica.


Finora ha criticato Tsipras ed elogiato Juncker. Non è troppo tenero, invece, verso gli errori di Merkel e della Ue in genere?

Lo scontro non va personalizzato. Io sono da sempre un fautore dell’esigenza di una maggiore coesione nella Ue e del passaggio a un’Europa a due velocità, con l’Unione attuale a 28 senza ulteriore integrazione, per tenere dentro il Regno Unito, e la zona euro a 19 che deve diventare un tutt’uno sia a livello finanziario ed economico, sia politico. Trovo, in questo senso, che non sia stata ancora pienamente compresa a esempio la grande novità dell’Unione bancaria, per cui in futuro la crisi di una banca non sarà più pagata dai cittadini.

Ma in futuro ci sarà ancora una Ue?

La vicenda greca dimostra che, con poca Europa, i fallimenti sono più facili e sono fallimenti di tutti. Bisogna cogliere allora questa crisi per invertire la rotta. C’è bisogno di una unità totale per sopravvivere dopo i balbettii e i timori che stiamo vivendo. Va preso seriamente in mano il rapporto dei cinque Presidenti, esaminato all’ultimo Consiglio Europeo.


Un rapporto che, tanto per cambiare, da più voci è stato giudicato troppo “timido”.

È vero, si deve fare di più. L’importante però è rimettersi in marcia. Le barriere fra i 28 Stati membri vanno il più possibile rimosse. E bisogna passare a politiche comuni più orientate alla crescita, obiettivo che è più difficile perseguire nel “recinto” del proprio Stato. Dalla “terra incognita” della Grexit bisogna passare a un territorio altrettanto inesplorato, quello di una unione sempre più stretta ed effettiva.


E vede un nesso fra la Ue/Grecia e il dramma immigrati (non) visto dalla Ue?

In un certo senso è l’altra faccia della medaglia. Se si guarda solo all’euro, è chiaro che si perdono di vista i valori più importanti. Per questo lo scatto in avanti deve essere a 360 gradi. L’Europa deve essere più responsabile in ogni campo della propria azione.