Le primarie devono essere un successo

Le primarie devono essere un successo

Intervista rilasciata al blogger Sergio Ragone per linkiesta.it.

“La prossima sarà la mia ultima legislatura”, così ha annunciato Enrico Letta ospite della Gruber ad Otto e Mezzo. A caldo ho rivolto qualche domanda al vicesegretario del Pd sulle prossime primarie, le elezioni del 2013 e sulle politiche di sviluppo messe in campo dal Governo Monti.

Durante l’Assemblea del Pd Lei ha detto «le primarie devono essere un successo». E cioè?

Possono e devono essere un’occasione di rigenerazione della politica. Credo che la priorità sia anzitutto questa: sottoporsi allo scrutinio di elettori e militanti per provare a recuperare quei requisiti di rappresentatività e autorevolezza di cui oggi la politica complessivamente intesa difetta. Su questo mi sembra che Pier Luigi Bersani abbia fatto una scelta coraggiosa e nient’affatto scontata: ha messo in discussione se stesso e il proprio ruolo per fare del Partito Democratico il battistrada di un complesso ma indispensabile processo di ricostruzione. Tutti – anche i suoi avversari più polemici – dovrebbero quantomeno dargliene atto. Le primarie, le prime nazionali realmente contendibili, le ha volute il Pd. E sia chiaro: solo il centrosinistra le fa e si apre al confronto e al voto dei cittadini. Né il centrodestra, né Grillo fanno lo stesso. E questo è anche il motivo che spiega tanto interesse e tanta voglia di partecipare di elettori tradizionalmente non riconducibili alle forze di centrosinistra. Elettori cui i rispettivi partiti non offrono alcuna possibilità di partecipare e di incidere in modo determinante sulla democrazia interna alle forze politiche.

Il clima di sfiducia non aiuterà molto il Pd, lo sa?
Non credo. O meglio ritengo che molto dipenda da come verrà condotta la campagna per le primarie nelle prossime settimane. Certo, gli attacchi frontali e l’aggressività non aiutano. Resta il fatto, però, che tanti cittadini chiedono legittimamente partecipazione e competizione sana tra idee e proposte. Se questo confronto sarà rispettoso, approfondito sui contenuti e alla luce del sole, son convinto che il clima di sfiducia si attenuerà.

Le primarie sono ancora la risposta all’antipolitica? La sola?
No, non sono l’unica risposta. Sono un primo passo, importantissimo perché legato a doppio filo alla partecipazione. Sullo sfondo c’è chiaramente il nodo della riforma della legge elettorale. Obiettivo irrinunciabile è restituire ai cittadini il diritto di scegliere direttamente i propri rappresentanti nel Parlamento, vale a dire laddove si esercita la sovranità popolare. Basta nominati, basta condannati in lista, basta Scilipoti ed epigoni vari. Più in generale, tuttavia, le tossine di una degenerazione dell’ethos pubblico investono tutto il sistema della rappresentanza. E credo che l’unico vaccino siano a questo punto regole severissime per combattere i reati compiuti da parte di titolari di funzioni o di incarichi pubblici. Dunque: subito l’approvazione del ddl anti-corruzione e poi provvedimenti su tempi di prescrizione e falso in bilancio. Non ultima, ovviamente, un’altrettanto rigorosa sanzione dei propri comportamenti individuali. Non è facile perché spesso l’autoassoluzione è una scorciatoia comoda e rassicurante. Ma è, appunto, una scorciatoia e io penso che di scorciatoie e di alibi questo Paese oggi non abbia davvero più bisogno.

Quanta antipolitica corre sul web?
Molta, ma occorre fare una distinzione. C’è l’antipolitica comprensibile, quella che nasce dall’indignazione, dal rigetto degli sprechi, dal rifiuto del privilegio e della devianza sistemica dalle regole, dagli effetti concreti della crisi sulla vita reale delle persone. C’è poi l’antipolitica strumentale e populista, quella che sulla rabbia lucra porzioni di potere residuo, che si nutre del disagio, che alimenta il conflitto. La Rete costituisce uno straordinario strumento di sanzione e di condivisione delle informazioni. Un flusso immenso di notizie che corrono sempre più per via orizzontale. È un tema che attiene evidentemente alla costruzione del consenso e che impone alla politica di essere totalmente trasparente e autorevole, di mettere le proprie competenze in circolo, di saper selezionare le informazioni, di spiegarle e di spiegarsi meglio.

L’uso dei social media per un uomo pubblico è solo un’esigenza di comunicazione?
È partito – almeno per quel che mi riguarda – come un’esigenza. È diventato poi uno strumento irrinunciabile di condivisione e confronto, che senz’altro non sostituisce il contatto diretto con elettori e militanti, ma che semmai lo arricchisce. Certo, non esenta chi fa politica dal dovere dell’approfondimento, dello studio, della presenza su altri canali di comunicazione dove il fattore tempo non è così stringente. Occorrerebbe, anche da questo punto di vista, mantenere un approccio ‘laico’: il rapporto tra cittadini e istituzioni si è sfilacciato e se i social media sono indispensabili per ricurcirlo ben vengano, ma senza farne un feticcio.

Rimaniamo sul tema dell’innovazione. Italia 2.0, con misure importanti per le start up e la digitalizzazione della PA, La soddisfa?
Sì, ma si può e si deve fare di più. Su questi temi c’è un’innegabile inversione di rotta specie per ciò che attiene alla sensibilità culturale dimostrata da molti esponenti del governo. Bene i primi interventi sulle start-up, ancora troppo poco quanto fatto per incentivare l’innovazione nelle imprese già esistenti. È su questo duplice binario che occorre agire con insistenza. Quanto alla sfera dell’intervento pubblico, il tema della digitalizzazione della PA incrocia quello, fondamentale, dell’Open Government. E qui dobbiamo muoverci verso la piena attuazione del principio dell’accessibilità totale. Dunque, approvare al più presto anche in Italia un provvedimento come il FOIA (Freedom of Information Act) assicurando ai cittadini la possibilità di consultare on line tutti i documenti della PA all’insegna della massima trasparenza a tutti i livelli istituzionali e amministrativi.

Forse però l’Italia non è così smart come vogliamo rappresentarla, non trova?
È senz’altro meno ‘smart’ di quanto dovrebbe ed è comunque diversa da come spesso la rappresentiamo. Esistono tante buone pratiche, specie a livello locale, che vengono poco dibattute. In quest’ottica l’innovazione, le sinergie tra sistemi di sviluppo, un partenariato più proficuo tra pubblico e privato possono certamente concorrere a rendere il sistema Italiano più attrattivo e ‘intelligente’, in termini di qualità della vita, crescita sostenibile, sussidiarietà, valorizzazione di capitale umano e creazione o rafforzamento di capitale sociale. È un percorso molto complesso che tira in ballo la buona amministrazione e, dunque, anche il monitoraggio e la valutazione delle politiche. Su tutto, naturalmente, la riduzione del digital divide. E sullo sfondo, ancora una volta, il problema di accountability della rappresentanza politica. Perché se non si interviene su quello, difficile immaginare di lanciarsi in un progetto per una ‘Smart Italy’.

L’Italia che partirà dal 2013 è l’Italia che Lei immaginava quando ha iniziato a fare politica?
Purtroppo no. Ho iniziato a fare politica da ragazzo, all’Università. Si percepivano già allora, alla vigilia della conclusione della guerra fredda, i segnali di quello scivolamento etico e politico che avrebbe portato alla fine della Prima Repubblica. Mai, però, avrei potuto prevedere il ventennio berlusconiano, l’esplosione dalla finanza pubblica, le degenerazioni di questi anni, l’Italia a un passo dal default, la gravissima crisi europea, il collasso della politica che genera sfiducia e fomenta il populismo. Questa che descrivo, però, è l’Italia del 2012. Sono fiducioso che, complice anche la nuova autorevolezza dell’Italia riconquistata grazie al lavoro di Napolitano e Monti, dopo le primarie e dopo il passaggio elettorale della prossima primavera, potremo finalmente ripartire. C’è un lavoro di ricostruzione del Paese da compiere. Ed è responsabilità di tutti contribuire a far sì che ciò avvenga con lo spirito di una comunità coesa che ritrova la forza di ripartire. E che soprattutto, forse, ritrova se stessa.