Letta: “La batosta risvegli il mio PD”

Letta: “La batosta risvegli il mio PD”

Intervista di Giuseppe Meloni a Enrico Letta, L’Unione Sarda, 25 marzo 2017

Peggio della Prima Repubblica: “Sì, il ritorno al sistema elettorale proporzionale è un terribile passo indietro”, dice Enrico Letta, “e con i capilista bloccati è pure più grave di allora”.

L’ex premier pronuncia una condanna senza appello per la stagione delle riforme voluta da Matteo Renzi: pur senza ritornare sul gelo che lo divide dal Rottamatore, Letta non addolcisce per niente il suo giudizio sugli ultimi anni della politica italiana. E neppure sul Pd, creatura che ama ancora ma che sembra quasi non riconoscere più: “Bisogna prendere lezione dalla dura sconfitta referendaria”, riflette.
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Ma alla vigilia del suo arrivo a Cagliari, per presentare (col deputato Marco Meloni) il suo ultimo saggio politico, Letta vuole parlare soprattutto di Europa, tema al centro del volume: oggi si celebrano i 60 anni dei Trattati di Roma, in una capitale blindata, “ma io ho scelto di trascorrere la giornata in Sardegna, e non solo per l’affetto verso l’Isola. Mi piace dare il messaggio che sia un’area cruciale per l’Ue, col suo ruolo nel Mediterraneo”.

E allora non si può non partire dagli ultimi eventi, dall’attentato di Londra che risveglia le paure. “Un attacco diretto all’emblema della democrazia parlamentare. Si intravede la volontà di rendere tutto simbolicamente così forte…”

Che cosa ci dice questa nuova ondata di terrore?

“Che dobbiamo reagire, che il pericolo non è passato. Forse negli ultimi mesi avevamo avuto l’impressione che la sfida fosse meno dura. Evidentemente non è così”.

Come si reagisce?

Anche attraverso celebrazioni come quelle odierne: se non ci si ferma all’aspetto della memoria, ma si ribadisce che l’Europa si rilancia partendo dai casi in cui stare insieme ci rende più forti. Il terrorismo è uno di questi. A patto però che si facciano cose concrete”.

Per esempio?

“Credo che sia giunto il momento di istituire un vero e proprio Fbi europeo, per unificare le intelligence per prevenire il terrorismo”.

I servizi nazionali si scambiano già informazioni di continuo.

«È vero ma non basta, come dimostrano alcuni di questi fatti. Le intelligence dei singoli Stati finiscono per avvertire in qualche modo i richiami nazionali».

Se l’Italia finora non è stata colpita da attentati, è merito dei nostri servizi segreti?

“Credo che ci sia anche un altro motivo: se lei nota, i colpevoli di questi episodi non sono fighters arrivati da chissà dove, ma quelli che potremmo definire radicalizzati indigeni. Persone residenti, talvolta anche nate, nel Paese che colpivano: Francia, Belgio, Inghilterra. L’Italia non ha grandi comunità di immigrati da più generazioni”.

Rischia di essere un argomento contro l’accoglienza. Come dire che l’integrazione realizzata in altri Paesi è stata un errore.

“Non è così. Quel modello di integrazione che viene criticato è figlio del passato coloniale di Francia, Inghilterra e altri. L’accoglienza dei rifugiati non c’entra niente. Non uno dei responsabili degli attentati è arrivato coi barconi”.

Su questo, lei da premier si è scontrato con la difficoltà di ottenere aiuto dall’Europa. L’Italia è stata lasciata sola dall’Ue?

“È corretto dire che tre Stati (noi, la Grecia e la Germania) sono stati lasciati soli non dall’Ue, ma dagli altri Paesi, che non hanno voluto conferire all’Unione più poteri. Io sostenevo che la politica migratoria deve partire dal riconoscimento del differente impatto dei migranti sui vari Paesi. Gestire la frontiera italiana o greca non è come gestire quella del Belgio”.

Che cosa bisogna cambiare?

“Noi abbiamo sempre cercato di cambiare il trattato di Dublino, ma altri si sono opposti. La regola per cui il singolo Paese gestisce i migranti. La frontiera esterna Ue dev’essere gestita invece da tutti gli Stati insieme. Da poliziotti con la bandiera a 12 stelle sulla divisa”.

Nonostante tutto, il suo libro è un atto d’amore verso l’Europa. Ma ha ancora senso crederci?

“È un atto d’amore verso l’integrazione europea, non per questa Europa. Non difendo lo statu quo. Dico che, rispetto alle sfide odierne, ha senso affrontarle uniti”.

Quali sfide intende?

“Quelle del mondo globalizzato: da Trump a Putin alla Cina. Pensi al protezionismo, che può avere un senso per gli Stati Uniti che producono meno di quello che consumano: per noi è il contrario, quindi ci serve il libero scambio. Italiani, spagnoli, tedeschi: siamo sulla stessa barca, se non saremo uniti non sapremo incidere. Oppure la sfida della sicurezza: un Paese da solo non può vincerla”.

Lei propone un’indennità di disoccupazione europea, e la stabilizzazione del piano Juncker sugli investimenti. Sarebbero misure energiche, molto diverse da quello che l’Ue fa attualmente.

“L’Europa non può essere uno strumento che funziona solo quando le cose vanno bene. Interventi simili tendono la mano verso le ferite della globalizzazione: la perdita di lavoro, la deindustrializzazione. Ma tengo a citare anche il progetto Dioniso, che ho elaborato pensando molto alla Sardegna”.

È quello sulle ristrutturazioni delle industrie in crisi.

“Sì, e sarebbe utile per riorganizzare l’economia dell’Isola e le sue produzioni, specie l’industria agroalimentare, l’artigianato. È giusto non buttare soldi in industrie decotte, ma l’Europa non può fare solo il poliziotto cattivo che nega quello che chiedono i poteri locali: deve invece individuare due-tre grandi progetti in cui si possano reimpiantare attività economiche produttive, sostenibili”.

A proposito di sfide odierne, lei scrive che il concetto di populismo è strumentalizzato. In che senso?

“Sta diventando l’alibi buono a coprire tutti gli errori delle classi dirigenti. Lo si cita per spiegare Trump, Brexit, il no alla riforma costituzionale italiana. Chiamiamo populismo ciò che sta fuori dalle tradizionali categorie politiche: un pericolo che io ravviso, per esempio, è il nazionalismo”.

Per Bersani il M5S è un argine al populismo. Condivide?

“Io dico che dobbiamo parlare agli elettori del M5S, non trattarli da appestati, capirne le ragioni e le sensibilità. Ma non penso che siano possibili alleanze col M5S”.

Parlare a loro per dire cosa?

“Anzitutto devono vedere linearità e concretezza dei nostri ragionamenti. Se ci perdiamo in logiche di potere, sono proprio le cose che quegli elettori hanno rifiutato”.

Non è mai stato tentato di seguire gli scissionisti fuori dal Pd?

“Io ormai guardo a queste vicende come un cittadino qualunque, e poi non c’è più una frontiera rigida tra il partecipare e il non partecipare: le stesse primarie rendono meno significativa anche la tessera di partito. Alle prossime primarie valuterò se votare, e chi”.

Facile immaginare, comunque, che la scissione sia per lei dolorosa.

“Sa che cosa mi addolora di più? Che siamo in una fase che spinge alle divisioni. Un effetto del grande pasticcio fatto sulle riforme istituzionali, temo: anziché modernizzare stiamo tornando indietro”.

Per la riesumazione del sistema elettorale proporzionale?

“Esatto. La peggiore eredità di questa legislatura. È pure peggio della Prima Repubblica, per l’aberrazione dei capilista bloccati”.

Lei però era favorevole alla riforma della Costituzione.

“A quella sì, anche se è stata gestita e presentata male. Ma il problema era l’interazione con la legge elettorale. Non a caso mi sono dimesso dal Parlamento dopo aver votato contro l’Italicum”.

Quanto è lontano l’attuale Pd da ciò che lei, Prodi, Veltroni e altri avevate in mente dieci anni fa?

“Ripeto, ora sono un semplice cittadino. Ma proprio il ritorno al proporzionale dà l’idea di quella distanza. Il Pd era fatto per un sistema maggioritario, inclusivo, univa tradizioni politiche diverse. Non a caso, col ritorno al passato, la prima novità è stata una scissione”.