L’Italia non è una minaccia per l’eurozona

L’Italia non è una minaccia per l’eurozona

Enrico Letta a Bruxelles, conferenza stampa presso la UEIntervista di Lucio Caracciolo – la Repubblica, 7 maggio 2013

Tra i Paesi europei in difficoltà l’Italia riveste un ruolo centrale, perché ha la massa critica sufficiente a far saltare la moneta unica. Come siamo arrivati a questo?
«L’Italia – spiega Enrico Letta in un’intervista rilasciata a Limes prima della nomina a premier – ha fatto da detonatore a una crisi la cui origine risiede in come l’euro si è sviluppato, non in come è stato concepito. Il mancato completamento del trattato di Maastricht ha comportato un’insostenibile asimmetria tra la componente monetaria dell’Unione Europea e il resto: affari interni, politica estera e di difesa, sicurezza, politica fiscale. Gli egoismi nazionali hanno trasformato un’unione pensata come opzione politica originale in un freno all’unificazione del continente. In questo senso le maggiori responsabilità non sono dell’Italia, ma di Germania, Francia e Regno Unito. Noi, il Paese che più di tutti aveva bisogno dell’integrazione europea, ci siamo così trasformati da risorsa in fattore di debolezza. Però non siamo gli untori che minacciano l’Eurozona; piuttosto siamo l’epicentro di una crisi figlia di una ventennale mala gestione del progetto europeo».

In una partita che vedesse da un lato Francia e Germania e dall’altro l’Italia, Benelux e Commissione, non avremmo molte probabilità di spuntarla.
«Se l’Italia recuperasse un ruolo di leadership nell’Unione Europea, potrebbe coagulare attorno a sé soggetti visibilmente contrariati e preoccupati della crescente atomizzazione dell’Europa».

E quale ruolo gioca la Germania?
«Tutto ruota attorno alla questione della leadership: esiste nell’establishment tedesco la volontà e la capacità di indicare una strada in grado da un lato di rassicurare l’opinione pubblica, dall’altro di fare il bene dell’Europa? Questo fece Kohl nel 1992, quando cedette la sovranità monetaria. Ora Angela Merkel è forte nei sondaggi e potrebbe non solo rassicurare i tedeschi, ma anche guidarli nel processo europeo ».

Il problema è che i tedeschi non si fidano di un Paese come l’Italia, che si sta destrutturando e che rischia di passare da una crisi di liquidità a una di solvibilità. Perché dovrebbero investire nel nostro salvataggio?
«Perché l’integrazione dell’area euro non può essere cancellata. Non esiste una separazione geografica: i confini economici tra le imprese di fatto non esistono più. Ormai siamo dentro un sistema totalmente integrato e quindi quello tedesco è un falso dilemma, perché già ora i tedeschi dipendono dall’economia italiana, come l’economia italiana dipende da quella tedesca e dalle altre. Dunque, il punto è capire come darci garanzie reciproche. Ad esempio: la logica, ormai chiara, per cui c’è bisogno di un equilibrio tra austerità e crescita, deve essere gestita con intelligenza. In questi due anni all’Italia è stato imposto il pareggio di bilancio, che ci pone oggi tra i primi della classe a livello europeo; tuttavia, questo sacrificio rischia di essere inutile se non si tramuta in crescita economica».

Il pareggio di bilancio ci sarà anche stato imposto, ma noi ne abbiamo fatto una bandiera. Abbiamo sbagliato?
«No. Era giusto farne un vessillo, purché si fosse affrontato anche l’altro corno del dilemma, quello della crescita. Questo, invece, è stato trascurato. Le conclusioni del Consiglio europeo del giugno 2012, dove si parlava di golden rule e di growth compact, sono rimaste lettere morte. Qui sta il problema di fondo: abbiamo fatto l’unione monetaria, sorvolando su quella economica. Questo è un problema anche per la Germania, perché se la domanda interna di tutti i Paesi europei crolla, anche Berlino ne risente ».

E come si resuscita la politica?
«Oggi la politica si trova in una fase di radicale cambiamento: o si entra nella logica dell’autorevolezza e della sobrietà, interloquendo con i bisogni espressi da un elettorato che non vota più per tradizione, ma per pragmatica convenienza, oppure dobbiamo prepararci a seppellire la politica rappresentativa. Con tutti gli scenari nefasti che ciò schiude ».

Dovendo disinnescare la mina sistemica che oggi è l’Italia, quali sono le priorità immediate?
«La prima è invertire l’avvitamento del Paese nel quale ognuno, invece di pensare a produrre e a investire, si preoccupa solo di risparmiare qualcosa per lasciarlo ai figli, sapendo che questi vivrebbero di stenti senza questi risparmi. A tal fine, occorre creare incentivi fiscali alle assunzioni, sgravando il lavoro di parte del suo fardello di tasse. E’ inoltre necessario razionalizzare la spesa pubblica, come dimostra la vicenda dei debiti delle pubbliche amministrazioni. Poi vi è la questione istituzionale: fine del bicameralismo perfetto e Senato eletto da rappresentati degli enti locali; riduzione dei parlamentari della Camera (ad esempio a 300); eliminazione definitiva delle Province, con il passaggio a unioni di Comuni laddove necessario. Per quel che riguarda le Regioni, il problema principale è la loro asimmetria: si dovrebbe riprendere lo studio della Fondazione Agnelli degli anni Ottanta sl riordino delle Regioni, che aveva una sua logica. Infatti, oggi è impossibile attuare le stesse politiche per una regione che equivale l’Olanda e per una che ha gli stessi abitanti di un quartiere di Roma. Su questo tema si devono attuare logiche d’integrazione. Serve inoltre una nuova legge elettorale, sebbene eliminare il bicameralismo perfetto risolva già in gran parte il problema delle diverse maggioranze nei due rami del Parlamento. Non si tratta di una decisione difficile: Mattarellum o doppio turno, basta che sia un sistema stabilizzante. Tutto questo va fatto in tempi rapidi, perché così non si può andare avanti».