Oui, Je suis Enricò Lettà

Oui, Je suis Enricò Lettà

Intervista di Marco Cicala per il Venerdì di Repubblica dell’11 marzo 2016
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Profilo asciutto, vestito grigio, modi felpati. Rispetto al 2007, quando lo seguii nella corsa alle primarie Pd in cui si piazzò terzo dietro Veltroni e Rosy Bindi, Enrico Letta non mi sembra tanto cambiato. Ma è sicuramente un mio difetto ottico. Perché negli ultimi anni la sua vita è cambiata un bel po’. In sintesi: Presidente del consiglio per dieci mesi, poi la velenosa staffetta con Renzi, quindi breve fase di latenza, infine le dimissioni dal Parlamento e l’annuncio del trasloco, con famiglia, a Parigi per insegnare alla facoltà di Sciences politiques, che i francesi – notoriamente sparagnini – usano restringere in SciencesPo.
Letta abita adesso in zona Place de l’Etoile e si divide tra due oneri: le lezioni all’università e la direzione della Scuola di affari internazionali, cioè un posto dove si organizzano master e si discute di cose molto importanti e gravose. Tipo: Quale missione per il prossimo Segretario delle Nazioni Unite? Gran bella domanda. Per affrontare interrogativi del genere, Letta s’è inventato i Youth&Leaders Summit, convegni annuali nei quali gli studenti hanno modo di dialogare con espertissimi da tutto il mondo sulle maxi-questioni che angustiano il mondo. «Dopo l’Onu, nel 2017 parleremo di immigrazione».
Quanti studenti ha? «Qui alla Scuola circa 1300. Solo un trenta per cento i francesi. Molti americani, poi tedeschi, italiani…»
Come hanno vissuto i giorni degli attentati? «Male. Sono la generazione Bataclan Tra gli stranieri molti volevano scappare».
Come li avete convinti a rimanere? «Mobilitando psicologi, organizzando incontri sul mondo islamico. Anche tra i docenti invitati c’è stato un effetto panico. Tanti hanno disdetto gli impegni».
Ai ragazzi che insegna? «Due idee funzionano per me da guida, da Stella polare e Croce del Sud…».
Comincerei dalla Stella. «Il rapporto fra teoria e pratica. Negli scenari internazionali di oggi basarsi su conoscenze solo teoriche non serve più. Per questo lavoriamo molto sulle simulazioni di situazioni concrete».
Mentre la Croce del Sud? «La condizione di crisi. La mia generazione è cresciuta secondo un modello educativo che era: studi e ti prepari per gestire la normalità. Poi ogni tanto arriva una crisi che interrompe la normalità ma senza rimettere in discussione i modelli formativi. Ormai quello schema è saltato. Oggi passiamo di crisi in crisi. Perciò devi essere pronto all’adattamento. Questa è una delle cose che mi rende ottimista su noi italiani. Certi studi mostrano che su tanti aspetti siamo messi male, ma non sul crisis management. Nelle fasi critiche sappiamo cavarcela».
L’arte di arrangiarsi. Oddio, ancora? «Sì, ma guardi che non è folklore».
In termini di popolarità, la politica ha una pessima cera. Sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. E insegnarlo. «Nel mondo globalizzato la politica ha perso autorevolezza. E il cittadino ha l’impressione che quella nazionale non incida più granché sulla sua vita di tutti i giorni. E poi c’è internet».
Immancabile. «Con la rete, la politica, e più in generale l’autorità, non hanno più il monopolio dell’informazione, del sapere. I dati, le risposte fattuali ormai li trovi su Google. Quello che non ci trovi è la bussola. Punti di riferimento chiari per muoverti in situazioni complesse. Vanno insegnati».
Sì, ma gli arrabbiati non picconano la politica perché ha perso l’autorevolezza e il monopolio del sapere. Strillano contro la casta, gli affari… «Perciò vado ripetendo che il politico di domani è uno che non deve fare solo il politico, ma che innanzitutto deve avere un mestiere. L’elettore non sopporta più le carriere di quarant’anni, la politica vitalizia dove si passa da una poltrona all’altra. Tutto questo è finito».
Detto da lei che in 49 anni è stato ministro, sottosegretario, Presidente del consiglio, può suonare come un’autocritica. «Dimettendomi dal Parlamento ho voluto dare un messaggio in questo senso».
Ma adesso che ha fatto il Cincinnato la accusano di aver abbandonato l’Italia, la lotta. «Se è per questo, sul web mi accusano pure di continuare a prendere lo stipendio da deputato. Non lo prendo più. Quanto all’Italia, non l’ho abbandonata. Torno a Roma ogni mese per dedicarmi all’Arai, la scuola di politiche che abbiamo creato con Emma Bonino e Pascal Lamy. Corsi gratuiti per cento ragazzi tra i 19 e i 25 anni, selezionati in tutto il Paese e dai percorsi di studio diversi».
Ironizzando sulla sua Second life parigina, Giuliano Ferrara ha scritto: Prendere Enrico Letta come professore di politica nella fatidica scuola di SciencesPo è uno scherzo, un gioco di società, una ostentazione di apparenza. «A Ferrara non gli puoi toccare Craxi, Berlusconi e Renzi. Per lui sono la reincarnazione di Dio . Non ha tollerato che io mi sia ribellato a Berlusconi quando voleva far cadere il mio governo e che non mi sia inchinato di fronte a Renzi».
Quella di Premier è stata l’esperienza da cui ha imparato di più? «No, sul piano del bagaglio, quella di sottosegretario alla presidenza è stata più istruttiva. A Palazzo Chigi sei sulle montagne russe, non riesci nemmeno a capire quello che sta succedendo. Da sottosegretario invece tratti con tutti i pezzi del sistema, e puoi capire moltissimo sul funzionamento del potere».
Tra le cose che ha fatto da Premier qual è quella di cui va più fiero? «Mare nostrum, l’operazione per i migranti. Ormai ha ricevuto tanti apprezzamenti, compreso quello dell’Alto Commissariato Onu. Ma scatenò un sacco di attacchi e bugie. Dissero che funzionava da richiamo, che attirava gli sbarchi. Invece, oltre a quello del mare, siamo arrivati anche al controllo degli scafisti».
E le cose che si rimprovera di più dei mesi a Palazzo Chigi? «Troppa ingenuità».
Enrico il sereno. Ma l’ingenuità non è per forza un difetto. «In politica lo è».
Altri errori? «Troppa prudenza nelle riforme».
E sul versante dell’immagine? «Certo, sono ancora percepito come un freddo. Ma penso di essere cambiato. Ora ho più voglia di rischio».
La politica è anche faccenda di passioni, personalità, epica. «Assolutamente. L’epos conta. Come conta il carattere nazionale. A noi italiani c’ha rovinato Gianni Rivera».
Poveraccio, e perché? «È il mio idolo. Quel gol in extremis a Città del Messico contro la Germania è uno dei tre o quattro fatti epici dell’Italia repubblicana, ma c’ha rovinato. Ci ha dato l’idea che alla fine noi ce la caviamo sempre, quindi tanto vale non organizzarsi prima. Però oggi se non unisci genialità e programmazione non ce la fai».
In fatto di comunicazione, lei ha eccepito parecchio sullo storytelling politico, la narrazione più o meno affabulata dell’operato di governo. «Sì, ma qui non voglio ricascare in un banale battibecco con Renzi».
Mica c’è solo Renzi nel magico mondo degli storyteller. «La narrazione deriva dalla necessità, oggi vitale, di comunicare bene quello che si fa. Se fai le cose e non sai comunicarle, metà di quanto stai facendo non serve. Però non bisogna cadere nell’eccesso opposto secondo cui tutto è comunicazione. La sostanza resta decisiva. Dico sempre che in politica ci vorrebbe un’Unità San Tommaso, un gruppo d’intervento che metta la mano nella ferita del costato».
Tradotto in termini più profani? «Luoghi indipendenti in grado di certificare che certe cose si stanno facendo davvero, che stanno dando risultati oppure no. Comunque, all’elettore, al cittadino bisognerebbe avere il coraggio di dirgli: pensavamo di fare questo e quello però non ci siamo riusciti, o non ancora».
Stamattina ha fatto una lezione su grandezza e limiti dell’Europarlamento. Ma oggi l’Europa appassiona gli studenti o li lascia freddini? «Chi ha vent’anni è interessato, chi ne ha trenta, già meno».
Che deve inventarsi un prof per rendergliela un minimo sexy? «Per esempio ricordare che senza l’Europa non ci sarebbero l’Erasmus o le compagnie low cost con cui loro si spostano. E poi agli studenti ripeto sempre: Pensate davvero che i problemi con cui ci scontriamo oggi possano ancora trovare soluzioni esclusivamente nazionali?».
Ultimamente tra governo italiano e Ue non sono stati giorni idilliaci. «Ci siamo messi dentro una dinamica europea piuttosto faticosa. L’Europa dev’essere cambiata, riformata, completata. Ma non va presa come capro espiatorio per ragioni di politica domestica».
All’estero i politici italiani non hanno generalmente di un’immagine mozzafiato. Domina sempre il cliché? «Conoscono poco la nostra politica. Alla Scuola abbiamo invitato Schwarzenegger per farci raccontare l’esperienza da governatore ecologista della California. A cena, mi ha citato un solo nome di politico italiano: Berlusconi».
È già qualcosa. Ma adesso distraiamoci un po’: a Parigi quando non lavora che fa? «Vado a teatro. Faccio il turista. Porto i miei figli a giocare a pallone. O nei parchi tematici. Quello di Asterix è fantastico».
Tutto qua. «Mi diverte anche andare allo stadio a vedere il Psg. Mi annovero tra gli orfani di Ibrahimovic. La cosa che non perdono a Berlusconi è di averci illuso sul reingaggio di Ibra».
Beh, non gliene perdonerà pure altre. «Allora diciamo che è l’ultima che non gli perdono».