Persona, famiglia, comunità

Persona, famiglia, comunità

Quella che stiamo attraversando è la più grave crisi economica e sociale della nostra vita. Nessuno di noi ha mai vissuto nulla del genere. E tutti percepiamo bene la portata della sfida che ci attende ora. La crisi investirà la politica, l’economia, la società. La crisi metterà in discussione il sistema di protezione sociale, le nostre certezze, il welfare italiano così come si è venuto a creare nel corso del ventesimo secolo.

Per uscire dalla crisi dobbiamo allora trovare il coraggio di cambiare, di innovare, di riformare. L’incontro di oggi è solo l’inizio di un percorso di discussione e ascolto lungo quattro mesi che ci condurrà, in primavera, alla Conferenza nazionale per un nuovo welfare del Partito Democratico. Oggi e domani presenteremo idee e proposte, chiederemo pareri agli esperti, ci confronteremo con operatori del settore e amministratori locali. Poi porteremo questa stessa formula direttamente sui territori, cercando di convogliare intorno ai temi del lavoro, del sostegno alle famiglie, dell’assistenza sociale e sanitaria un confronto il più possibile allargato e responsabile.

Questo sarà il nostro metodo: apertura e partecipazione. Il tutto con un obiettivo molto ambizioso: costruire un welfare moderno e riformista in grado di rispondere davvero ai nuovi bisogni e alle nuove aspettative di una società che si trasforma giorno dopo giorno.

Spostare il centro del welfare italiano: la PERSONA al posto del maschio adulto

Il Partito Democratico accetta la sfida lanciata dal ministro Sacconi con il Libro Verde sul Welfare. Accetta ma rilancia. Perché a noi non interessa conservare l’esistente. Non ci interessa tenere in piedi un modello mediterraneo di welfare costruito sulla centralità del maschio adulto italiano. Noi non ci accontentiamo di garantire solo chi già è garantito. Ci interessano, invece, gli “assenti”, gli “invisibili”, i non tutelati dal welfare. Ci interessano le persone e le famiglie: quelle che, oggi più che mai, semplicemente non riescono ad andare avanti e, guardandosi intorno, non trovano il supporto né delle istituzioni che dovrebbero rappresentarle, né della comunità che dovrebbe sostenerle.

Vogliamo e dobbiamo cambiare, dunque. Perché sappiamo bene che il sistema del welfare italiano, così com’è, non funziona più. Non funziona in primo luogo perché non è giusto, non si occupa dei deboli, non fornisce gli strumenti per ridurre gli squilibri e le iniquità presenti nella nostra società. Negli ultimi anni, ben prima della crisi, in Italia le disuguaglianze sono aumentate, non diminuite. Sia quelle territoriali, tra il Nord e il Sud del Paese, tornate a crescere già dal 2001. Sia quelle sociali: sale il numero dei poveri, ma soprattutto si assottiglia il confine tra povertà e ceto medio e si riducono le opportunità di realizzazione personale per chi non ha la fortuna di avere “le spalle coperte”.

I numeri parlano chiaro. Nel nostro Paese l’indice che misura la disuguaglianza sociale – vale a dire il rapporto tra il reddito del 10% della popolazione più ricca e il 10% di quella più povera – è pari a 11,6, inferiore solo a quello di Stati Uniti e Gran Bretagna, il cui sistema di promozione sociale si fonda però sulla meritocrazia. Lì, nonostante tutte le difficoltà attuali, è ancora possibile crescere, competere, vincere o perdere a seconda soprattutto delle proprie potenzialità. Da noi questo non avviene: solo il 13,3% degli italiani nati in una famiglia di operai riesce a fare il salto sociale. Tutti gli altri – quasi 9 su 10 – devono accontentarsi: carriera bloccata o mai avviata, non si passa, non si cresce.

Incrociando i due dati, quello sulla disuguaglianza di reddito e quello sulla mobilità sociale, il risultato è che l’Italia di questi anni è il Paese più ineguale del mondo occidentale, il più ingiusto. Per sboccarlo e renderlo più equo la via principale da percorrere, anche se lunga e difficile, rimane quella della formazione. La conoscenza è garanzia di opportunità, crescita collettiva, meritocrazia. La conoscenza è la chiave del futuro e per questo necessita di un forte investimento politico e finanziario. Le scelte fatte finora dal governo Berlusconi si sono concentrate prevalentemente sulla riduzione delle risorse per la scuola e per l’università. Non è la strada giusta tanto più che proprio questo governo avrà il compito di rappresentarci in Europa nella fase delicatissima in cui si negozierà un’Agenda di Lisbona 2, per rilanciare la strategia di crescita economica e sociale fondata proprio sul nesso, inscindibile, tra competitività, conoscenza e politiche sociali.

Tornando alla gestione dell’emergenza, per uscire dalla crisi, è indispensabile restituire ossigeno all’economia anche con interventi immediati: abbiamo l’obbligo di occuparci, ora e subito, di chi le disuguaglianze di reddito e di mobilità sociale le subisce, ogni giorno, sulla propria pelle. Di chi sta perdendo o perderà il lavoro in questo periodo difficile e non potrà contare sulla rete di salvataggio di un sistema di ammortizzatori sociali che ancora si riferisce solo a pochi privilegiati, per lo più lavoratori dipendenti maschi e di mezza età. Di chi fa i conti con una busta paga che non basta mai e si ritrova sfiduciato, senza riuscire neanche solo a immaginarlo un futuro migliore, per se stesso e per i propri figli.

Un welfare moderno non può ridursi a pensioni e sanità

È fin troppo chiaro che il Paese ha bisogno di altro. Ha bisogno di politiche forti per rilanciare la buona occupazione e contrastare la precarietà del lavoro, di interventi per l’integrazione sociale, per la famiglia, per la casa.

L’attuale composizione della spesa sociale, però, non lo consente. Il sistema italiano del welfare non funziona – e vengo qui al secondo motivo per cui il PD vuole rilanciare la sfida del cambiamento – perché è profondamente squilibrato, schiacciato su due sole voci di spesa, le pensioni e la sanità, che letteralmente divorano le risorse per le politiche sociali, per l’assistenza dei non autosufficienti, per il miglioramento dei servizi di cura. Anche in questo caso le cifre parlano chiaro. Pensioni e sanità occupano insieme oltre l’87% del totale della spesa sociale. Non succede in nessun altro Paese del mondo. Alle restanti voci di spesa va molto poco. O meglio briciole: 4,4% alle politiche per la famiglia, solo il 2% per quelle contro la disoccupazione e addirittura lo 0,3% – percentuale più bassa dell’intera Europa a Ventisette – per le politiche abitative e contro l’esclusione sociale.

Se pensiamo agli effetti di lungo termine che avranno l’invecchiamento progressivo della popolazione italiana e l’incremento della spesa sanitaria, inevitabile per via dell’aumento della speranza di vita, ci rendiamo conto che questo modello di welfare è destinato ad esaurirsi. Come possiamo, infatti, immaginare di contrastare il crollo del tasso di natalità a costi zero, senza cioè un serio investimento nella politiche per la famiglia? In che modo saremo in grado di promuovere l’integrazione degli immigrati nella nostra comunità se continueremo a destinare alle misure contro l’esclusione sociale nelle grandi aree urbane meno dello 0,1% del Pil?

E ancora: in una società che invecchia inesorabilmente, più che nel resto del mondo, come si può andare avanti senza ripensare le politiche per i non autosufficienti? Nel 2050 un italiano su sette – circa il 15% della popolazione – avrà più di ottant’anni. Tra questi uno su quattro sarà non autosufficiente. Già oggi la spesa per assistere un non autosufficiente grava sul sistema per circa 18.000 euro all’anno. Più di un terzo lo pagano le famiglie. Famiglie che spesso sono monoreddito perché soprattutto alle donne viene delegata la funzione di supporto ad anziani e non autosufficienti. Con il risultato che queste stesse donne non possono lavorare, il reddito familiare rimane inevitabilmente basso e in tempi di crisi, o di recessione, avere cura di un anziano o di un disabile può significare scivolare vicino o addirittura sotto la soglia di povertà. Sarà necessario, quindi, recuperare ulteriori risorse, battendo anche sul tasto della flessibilità e della volontarietà del momento di uscita dal mercato del lavoro.

Welfare ingiusto e sbilanciato, dunque. Welfare da ripensare e riformare. Un primo ambizioso passo è stato compiuto da Romano Prodi e Cesare Damiano con il Protocollo sul welfare del 23 luglio 2007, che contiene molte innovazioni importanti a partire dalla revisione degli ammortizzatori sociali e dall’apertura alla contrattazione di secondo livello. Sulla necessità di proseguire su un percorso di riforma di questo genere c’è un accordo pressoché condiviso. Eppure, chi mira a mettere in piedi un sistema efficiente nell’erogazione dei servizi, stabile sul piano sul piano finanziario, equo nella tutela dei diritti sente ripetere da anni sempre la stessa obiezione: l’Italia non può strutturalmente permettersi di estendere le tutele del suo Stato sociale. Glielo impedirebbero due condizioni in qualche modo fisiologiche: da un lato, il livello della pressione fiscale, dall’altro la situazione di indebitamento della finanza pubblica, con la conseguente necessità di ridurre, o quantomeno mantenere inalterato, il rapporto tra deficit e prodotto interno lordo.

Sostenibilità finanziaria, lotta all’evasione ed equità.

Più welfare non significa per forza più tasse. La responsabilità di mantenere, ed eventualmente allargare, la tutela dei diritti della persona ricade sull’intera comunità. Devono, cioè, farsene carico tutti. Ma è necessario che il sacrificio sia progressivo, ispirandosi a un principio costituzionale troppo spesso dimenticato. Il problema, quindi, non è il livello generale della pressione fiscale quanto un riequilibrio dei sistemi di tassazione. E mi sembra profondamente democratico ribadire qui con voi oggi che quel 10% di popolazione italiana più ricca – la stessa che in questi anni, come abbiamo visto, ha continuato a crescere – ha in questa fase la responsabilità di sostenere un onere maggiore rispetto agli altri per uscire dalla crisi. “Non c’è niente di più ingiusto che far parti uguali tra disuguali”: le parole di Don Milani devono valere, oggi più che mai, come monito e come riferimento irrinunciabile.

Non a caso, abbiamo criticato in questi mesi la scelta del governo di abolire per tutti l’ICI sulla prima casa. Adesso dobbiamo insistere e proporre all’esecutivo di tornare indietro. Sarebbe una prova di coesione sociale, un modo per liberare risorse e per investire di responsabilità l’intera comunità. A proposito di ICI, la vicenda dimostra poi che, pur in quadro generale di difficoltà della finanza pubblica, le risorse per finanziare il ridisegno del welfare si possono trovare senza toccare il deficit. La strada giusta, dunque, non passa attraverso l’ennesimo ricorso all’indebitamento, anche perché utilizzare oggi in misura eccessiva e in modo disinvolto la maggiore flessibilità concessa dal Patto di Stabilità europeo sarebbe per l’Italia un boomerang, come la storia degli ultimi anni testimonia fin troppo chiaramente.

Il nodo da sciogliere è piuttosto un altro e riguarda la qualità della spesa pubblica, il suo utilizzo selettivo, la modernizzazione e il coordinamento nell’erogazione dei servizi. Quello della qualità della spesa e dell’efficienza della pubblica amministrazione è un tema che ci appartiene da tempo e per il quale rimando alle proposte di Pietro Ichino, solo parzialmente riprese dalle ultime iniziative del ministro Brunetta. Conti in ordine e amministrazioni virtuose sono la base per un welfare equo ed efficiente. Lo è a maggior ragione la lotta all’evasione fiscale, specie in considerazione del fatto che per definire requisiti, prestazioni e livelli di assistenza la certezza dei dati sul contribuente è fondamentale. Il rischio è, infatti, quello di premiare ancora una volta i più furbi, penalizzando invece chi a quelle prestazioni ha effettivamente diritto.

Più richiesta di salute: i costi, la responsabilità, le opportunità

Un discorso simile vale per della sanità. L’Italia può fare affidamento, secondo l’OMS, su un servizio sanitario nazionale tra i più avanzati del mondo. Esso è anche una delle più importanti imprese sociali del Paese. Lo è per la sua missione naturale che è quella di assistere ogni giorno, per 365 giorni l’anno, milioni di cittadini, senza alcuna distinzione di ceto, categoria, residenza, età, sesso. Il primato internazionale sull’aspettativa media di vita, che l’Italia vanta ormai da anni, conferma il successo del principio di universalità del servizio. Un principio che non può essere messo in discussione. Occorre, piuttosto, rafforzarlo. Le prestazioni sanitarie essenziali vanno, ad esempio, pensate in funzione delle trasformazioni della nostra società e dell’invecchiamento della popolazione. E bene ha fatto, nella scorsa legislatura, il ministro Turco a promuovere un ulteriore sviluppo del “paniere” dei servizi e delle prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle persone. Non vanno, invece, nella giusta direzione le nuove indicazioni sui Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) proposte dal governo in carica.

L’aumento della speranza di vita genera, comunque, una serie di questioni di natura finanziaria. Come sostenere questa trasformazione è un problema ancora aperto. Noi vogliamo discuterne a partire dai dati: tutte le previsioni economiche confermano che nei prossimi anni la spesa sanitaria italiana crescerà esponenzialmente. Quella pubblica, ma anche quella privata. Da anni quest’ultima aumenta senza sosta. Si tratta per la maggior parte – più dell’80% – di pagamenti out of pocket, cioè direttamente a carico dei redditi disponibili dei cittadini. In termini più semplici, sempre più prestazioni giudicate necessarie gravano sui bilanci delle famiglie. Cure e prestazioni che, in questo quadro generale di grande difficoltà del potere d’acquisto, le famiglie sono spesso costrette a depennare dalla lista dell’essenziale.
Come intervenire per risolvere questa anomalia? Per quanto riguarda le fonti di finanziamento della sanità, il dibattito sul rapporto pubblico-privato ha scontato negli ultimi anni resistenze ideologiche molto forti che hanno impedito di considerare il fatto che nel nostro Paese esistono strutture private accreditate eccellenti ed altre solo speculative. Allo stesso modo, nel settore pubblico, accanto a casi esemplari di professionalità e competenza, convivono realtà ormai inaccettabili come l’ospedale di Vibo Valentia e la Clinica Santa Rita di Milano.

Un Partito come il nostro, che vuole contribuire alla formazione di un sistema di welfare realmente moderno e riformista, deve almeno prendere in considerazione una possibile diversificazione delle fonti di finanziamento. La sanità, come le pensioni, è finanziata a ripartizione. Sono, cioè, gli attivi a pagare per tutti. E come per le pensioni dobbiamo scrivere un quadro di regole per la formazione di un pilastro privato complementare, tanto per la fiscalità quanto per il funzionamento degli strumenti.

In questa prospettiva, i costi della sanità possono diventare un’opportunità di sviluppo. A patto naturalmente di essere in grado di razionalizzarli in funzione di obiettivi di equità ed efficienza. Obiettivi da realizzare poi attraverso una programmazione puntuale degli interventi e una valutazione sistematica delle prestazioni e dei servizi erogati.

Ancora per quanto riguarda le opportunità di sviluppo, industria farmaceutica e sistema di servizi alla persona devono essere centrali nelle politiche industriali. A tal fine, proponiamo politiche di stabilità tariffaria e continuità del credito d’imposta per finanziare la ricerca.

Sempre su una linea di innovazione, proponiamo di ristrutturare e ammodernare, sulla base di un piano nazionale per la qualità, la rete ospedaliera nazionale, con la chiusura dei piccoli ospedali generalisti e il rafforzamento delle specialità territoriali attraverso la creazione di centri polifunzionali all’avanguardia. Gli ospedali così potranno essere utilizzati sempre più per i loro compiti specifici, legati soprattutto alla alta specialità, alla ricerca e alla formazione. Bisognerà, quindi, compiere un grande investimento sulla medicina di famiglia, sempre più centrale nella risposta alla crescente domanda di salute.

Quando parliamo di sanità, quando avanziamo proposte in materia, ci rivolgiamo naturalmente al governo in carica. Ma ci rivolgiamo anche a noi stessi. Il Partito democratico è infatti alla guida di 13 regioni su 20. Gestire con efficienza, rigore, assoluta trasparenza la spesa sanitaria – vale a dire la più rilevante competenza legislativa riservata, nel nuovo quadro costituzionale, al livello regionale – deve essere un imperativo irrinunciabile. Non possiamo permetterci di fallire la prova della buona amministrazione. Ne va tanto dell’interesse della comunità, quanto della nostra credibilità nei confronti di chi ci sostiene.

Riforma del welfare, nuovi ammortizzatori sociali e risposte alla crisi

Più in generale, chiediamo al governo di fornire delle risposte alla crisi che vadano oltre gli interventi finora approvati a sostegno delle banche e degli istituti di intermediazione finanziaria. Lo hanno detto in Parlamento sia Walter Veltroni sia Pierluigi Bersani: per uscire dall’emergenza sono necessari un supporto consistente alle famiglie e misure efficaci a favore delle piccole e medie imprese. In un caso e nell’altro dovrà trattarsi di interventi strutturali in grado di sfruttare questo passaggio obbligato per procedere sulla via di riforme che intervengano sui “fondamentali” del nostro sistema economico e produttivo.

Basta, dunque, con le logiche una tantum. Una crisi del genere – ripetiamolo: la più grave di tutta la nostra vita – non può essere affrontata con interventi spot finalizzati solo ad alimentare i media e a placare l’opinione pubblica.

Una crisi del genere rischia di spazzare via il meglio del Paese se in campo non riusciamo a mettere politiche che abbiano l’ambizione e la forza di cambiare in profondità il corso delle cose e di incidere sulla vita concreta delle persone. In primo luogo per quanto riguarda la famiglia, specie quella numerosa sulla quale gravano carichi sempre più insopportabili. A dispetto della retorica familista ostentata dal governo, il lavoro impostato da Rosi Bindi nella scorsa legislatura è stata lasciato interrotto. Le famiglie che già ci sono chiedono servizi di supporto alla cura dei figli e all’assistenza degli anziani. Chiedono asili nido, flessibilità negli orari di lavoro, innovazione negli strumenti di tutela del reddito. Le famiglie che intendono formarsi hanno, invece, bisogno di stabilità, politiche abitative, promozione del ruolo della donna sul lavoro. Per entrambe le risposte giunte finora sono state insufficienti.
Così come evanescente ci sembra il tenore delle soluzioni proposte per il lavoro. Oggi, come dicevo in apertura, nel nostro Paese convivono due mondi distinti: da un lato, quello dei garantiti, dei lavoratori stabili coperti da un welfare modellato ad uso e consumo del maschio italiano di mezza età; dall’altro, quello dei precari, dei giovani, degli immigrati, degli over 50 usciti anzitempo dal mercato del lavoro. Sono loro i nuovi “invisibili”, tutti rimasti fuori da una cittadella dei diritti sempre più settaria ed esclusiva. Il Partito democratico deve – e mi richiamo qui alle analisi autorevoli di Tito Boeri, Massimo Livi Bacci, ancora Ichino – essere in grado di unire questi due mondi, di avvicinare le generazioni, di mettere insieme l’uno e l’altro in una comunità coesa e protesa all’interesse generale.

La partita più delicata si gioca ovviamente sul terreno del lavoro. I due mondi si avvicineranno se i riferimenti contrattuali di ciascuno faranno altrettanto. Occupazione fissa e precariato, contratti a tempo determinato e indeterminato: le regole d’ingaggio del mercato del lavoro sono la chiave per ripartire e non possono rappresentare un argomento sul quale continuare a dividersi sulla base delle appartenenze ideologiche e di schemi immutabili da anni.

Giovani e vecchi, garantiti e “invisibili” rischiano, comunque, di pagare tutti il prezzo della crisi, indistintamente. Per questo dobbiamo farci trovare pronti e la crisi deve essere l’occasione per investire sugli ammortizzatori sociali e per riformarli.
La Banca d’Italia pochi giorni fa ha chiesto di intervenire subito proprio sugli ammortizzatori. L’esecutivo, dal canto suo, nelle ultime settimane ha espresso la volontà di ampliare la platea dei possibili beneficiari. Questo vuol dire che le risorse ci sono. Ebbene, perché non utilizzarle, insieme a quelle già disponibili, per fare finalmente una riforma vera degli ammortizzatori? Una riforma estesa a tutte le categorie contrattuali, un primo importante passo verso quel riavvicinamento tra i due mondi del lavoro che deve diventare una sorta di ossessione positiva per il Partito Democratico, come dimostra il documento della Consulta Lavoro predisposto da Cesare Damiano e Tiziano Treu. Noi siamo disponibili a discutere della riforma. Perché vogliamo un sistema nel quale l’espulsione dal mercato del lavoro sia un evento, certamente negativo, ma solo temporaneo. Non più una tragedia personale, bensì un’occasione di formazione e riorientamento.

Il nostro obiettivo è affiancare alla giusta flessibilità un sistema di tutele per un mercato del lavoro più equo ed integrato. Equo tra lavoratori, perché non è più possibile accettare che vi siano dipendenti – e mi riferisco al caso Alitalia – cui viene assicurato l’80% della retribuzione per un periodo di 7 anni e altri, magari precari o licenziati da piccole imprese, lasciati scoperti o con tutele minime. Integrato perché le prestazioni di sostegno al reddito non possono rappresentare l’unico sostegno da parte dello Stato; c’è bisogno di sviluppare finalmente anche in Italia quegli strumenti di ausilio alla ricollocazione e alla riqualificazione che ancora stenta a decollare e su cui lo Stato centrale ha ormai abdicato.

In questo quadro proponiamo un reddito minimo di cittadinanza come tutela di ultima istanza. Gran parte delle situazioni oggi coperte dagli “ammortizzatori sociali in deroga” si riferisce, infatti, non a crisi occupazionali impreviste, ma a situazioni ormai incancrenite, in cui i trattamenti di sostegno del reddito vengono prorogati di anno in anno e il bacino dei beneficiari rimane pressoché identico. Così si cristallizzano situazioni di disoccupazione, sotto-occupazione e occupazione non dichiarata. Questa confusione non è compatibile con la crisi che sta arrivando. Bisogna fare ordine. Il reddito minimo di cittadinanza consente di sostenere quelle persone che non hanno diritto (perché non sono mai state occupate) o non hanno più diritto (perché ne hanno sfruttato tutta la durata) all’indennità di disoccupazione.

Flessibilità e sicurezze, quindi, per reagire alle crisi e contrastare la povertà, relativa e assoluta. Come abbiamo sperimentato negli ultimi anni, infatti, per assicurare dignità, pari opportunità e sicurezza sociale a tutti non è possibile limitarsi alle misure che riguardano solo gli esclusi, poche e spesso di facciata. Il Paese non chiede carità di Stato e il “capitalismo compassionevole” – l’esperienza americana parla da sola – non funziona, acuisce le disuguaglianze, perché scoraggia la promozione sociale e soprattutto non sostituisce un sistema del welfare che abbia come fine ultimo l’integrazione e la coesione sociale.

Il Partito Democratico non condivide la posizione assunta dal governo secondo cui la povertà relativa non conta e bisogna intervenire soltanto a sanare le situazioni di estrema indigenza. Concentrare l’impegno di riequilibrio sociale sulla social card non è sufficiente. L’estrema indigenza va combattuta fino in fondo e il Protocollo sul welfare infatti destinava ingenti risorse per un aumento strutturale delle pensioni minime. Tuttavia, una società dinamica e basata sul merito non può accettare neanche l’estrema disuguaglianza nei redditi che è ormai tangibile anche in strati sociali che prima si consideravano al riparo da simili rischi. È particolarmente avvertita tra i lavoratori dipendenti, più o meno qualificato, che hanno visto negli ultimi anni erosa la propria forza contrattuale, e con essa i propri redditi.

Questo stato di insicurezza colpisce il ceto medio e penalizza fortemente la domanda interna, la cui debolezza da anni impedisce la crescita economica del Paese e oggi pesa come un macigno sulla dinamica dei consumi. Sostenere i redditi dei lavoratori significa così sostenere l’intera economia. Anche per questo il Partito Democratico propone di detassare i redditi da lavoro dipendente, consentendo un recupero del potere d’acquisto che questi lavoratori hanno perso o stanno perdendo a causa delle dinamiche inflative. Oltre la crisi, l’impresa italiana può e deve ripartire dal lavoro. O meglio dalle persone, dai lavoratori.

Per rilanciare l’economia occorrono poi anche misure specifiche che garantiscano il finanziamento alle piccole e medie imprese, attraverso l’estensione delle garanzie pubbliche del credito e il rafforzamento dei CONFIDI. Pensiamo, inoltre, a un Piano straordinario per accelerare, nella pratica concreta, i pagamenti della Pubblica Amministrazione. Troppo spesso, infatti, si pretende di fare risparmio pubblico spalmando il pagamento dei debiti contratti con le aziende a 12 o 18 mesi e generando una situazione potenzialmente esplosiva di mancanza di liquidità, a svantaggio tanto delle imprese quanto della comunità di riferimento.

Infine, per superare la crisi all’Europa e all’Italia serve un grande Piano per le infrastrutture. Solo in questo campo e per un piano rigorosamente gestito a livello comunitario si potrebbe pensare a un allentamento dei parametri di Maastricht. Soprattutto per quanto riguarda il Mezzogiorno non possiamo accontentarci di quanto sta facendo il governo. Il Sud ha bisogno di più infrastrutture. Ha bisogno di programmazione e di selettività. Diciamo, allora, basta all’uso distorto e strumentale dei Fondi FAS, che finiscono per finanziare interventi ordinari che nulla hanno a che vedere con le priorità di rilancio di regioni in ritardo di sviluppo.

Persona, famiglia, comunità per un nuovo welfare

Il coraggio di cambiare: abbiamo voluto aprire l’incontro di oggi con questo invito. In genere, si cambia a cuor leggero qualcosa che non ci serve più e che possiamo facilmente sostituire. Occorrono, invece, coraggio e determinazione per cambiare le cose preziose e importanti. Il sistema italiano di welfare è stato, appunto, prezioso e importante per il nostro Paese: una conquista storica, un riferimento, una garanzia di benessere e di giustizia sociale per molte generazioni di italiani.

Oggi, però, questo sistema ha fatto il suo tempo. Non rispecchia più una società che sembra trasformarsi giorno dopo giorno seguendo le accelerazioni della globalizzazione, della rivoluzione tecnologica, della crisi mondiale.
Ai nuovi diritti e ai nuovi bisogni dobbiamo allora essere in grado di fornire strumenti inediti di sostegno e di promozione sociale. Non è facile perché sempre più complessa è la società in cui viviamo e altrettanto complesse e differenziate devono essere le nostre soluzioni.

Dobbiamo, quindi, centrare l’obiettivo e fare di questa complessità un’opportunità. Scommettendo sulle specificità individuali, focalizzando l’attenzione delle politiche sul singolo, concentrandoci sulla persona. Ecco, il nuovo welfare deve ripartire da qui. Deve sviluppare le potenzialità, spesso inespresse o frustrate, della persona, mettendola nelle condizioni di esprimere al meglio se stessa, garantendole sostegno quando va male e chiedendolo supporto quando va bene.

Ce ne sono, nel nostro Paese, tante di persone da valorizzare. Milioni di giovani, esclusi, come abbiamo visto, da un sistema di tutele che semplicemente non tutela più. Talvolta veri e propri talenti dispersi che faticano a competere perché la comunità non li sostiene. Quasi sempre risorse in panchina, che non possono scendere in campo e quindi dare il meglio di sé.

Il Partito democratico vuole costruire il nuovo welfare con i giovani. Coniugando alla lotta alla precarietà strategie di promozione sociale basate davvero sulla conoscenza, sul merito, sulla mobilità.
Lo vuole costruire con le donne. Scommettendo prima di tutto sull’occupazione femminile come una delle chiavi per la competitività complessiva del nostro sistema economico. Più donne al lavoro significa oggi riduzione delle difficoltà legate alla crisi del potere d’acquisto; significa aumento della produttività, significa rinnovamento ed equità.
Lo vuole costruire con gli anziani ancora giovani, grazie a un servizio sanitario all’avanguardia, che possono lavorare, darsi da fare, supportare le famiglie e contribuire al benessere generale della comunità.

Da loro vogliamo e dobbiamo partire, per superare la centralità del maschio italiano beneficiario unico dell’attuale sistema di protezione sociale. Per restituire un ruolo attivo – e non solo di ammortizzatore di riserva – alla famiglia. Quella che già c’è e che fa fatica da sola a sostenersi. Quella che potrebbe esserci ma che non c’è, a causa di un sistema che in questi anni ha frustrato la possibilità di intraprendere percorsi autonomi per tanti giovani che hanno rimandato scelte di vita fondamentali come quella di sposarsi o di fare figli. Perché il nostro Paese – vecchio ma, appunto, pieno di risorse – deve tornare a fare figli per uscire dal declino. È forse questo il nostro obiettivo più ambizioso. Natalità è un sinonimo di futuro. E un Paese che non fa figli è un Paese che rinuncia a vivere e a progettare il futuro.

Il nuovo welfare che il Partito Democratico vuole costruire vuole investire tutto su una comunità coesa e solidale che non omologa le specificità del singolo ma le esalta; che valorizza i corpi intermedi, l’associazionismo, il terzo settore in nome della sussidiarietà; che fa affidamento sulle istituzioni e alle istituzioni chiede rigore, solidità, efficienza. Una comunità che accetta la sfida di scrivere, senza paura e nonostante la crisi, il proprio futuro.

Testo della relazione introduttiva di Enrico Letta all’incontro «Persona, famiglia, comunità» del 27 novembre 2008, verso la Conferenza Nazionale sul Welfare del Pd