“Il fronte unico anti populisti è il favore più grande ai populisti”

“Il fronte unico anti populisti è il favore più grande ai populisti”

Enrico Letta inaugura a Torino il ciclo di incontri «Prepararsi al futuro» ideato da Piero Angela mentre esce il suo nuovo libro («Ho imparato», Il Mulino). « Ripartire da Torino non è casuale spiega. Torino ha dato una sveglia a un’Italia prigioniera di un clima conformista, dimostrando una leadership civica. I partiti non devono soffocarla, è importante che questa forza conservi la carica con cui è nata, legata all’idea che le infrastrutture non sono il demonio».
Renzi, Letta, Minniti, Gentiloni, Calenda: le primarie Pd si svolgono in libreria? «I libri migliori si scrivono quando si è fuori dalla mischia. Spero che servano a fare autocritica e capire perché si è buttata via una legislatura, tornando alla casella di partenza tra le macerie».
Il Parlamento discute l’introduzione del referendum propositivo. Che ne pensa? «Non è uno scandalo, ma un modo per avvicinare i cittadini alla decisione. Funziona se relativo a questioni puntuali e definite, come in Svizzera. Non su questioni che implicano la tenuta del governo, come sulla Brexit».
Teme derive plebiscitarie? «Il decennio dello smartphone ha indebolito le democrazie e aumentato le diseguaglianze in modo insopportabile. La gente è insoddisfatta: alterna noia a rabbia e vota contro la democrazia».
Casaleggio ipotizza la fine del Parlamento. «Spero di no, ma va preso sul serio. I Parlamenti si svuotano ovunque, Brexit manifesta la crisi della democrazia più solida del mondo».
Che fare? «Adeguare i tempi della decisione a quelli della vita. Nel libro propongo legislature ridotte a tre anni e un termine massimo di tre settimane tra elezioni e nuovo governo».
Con Renzi non riesce a fare a meno di polemizzare? «No, in fondo devo ringraziarlo: grazie alla cacciata da Palazzo Chigi sto trascorrendo il periodo più bello della mia vita. La ferita della campanella è chiusa da tempo».
Allora quel filo rosso tra lui, Grillo e Salvini che cosa vuole significare? «Un discorso sulla cultura dell’eliminazione dell’avversario. Scorciatoia che ti fa vincere quando sei giovane, nuovo e puro. E scomparire quando uno più puro, nuovo e giovane asfalta anche te».
Vale per Salvini e Di Maio? «Mi stupisce che stiano rifacendo il peggiore errore della Seconda Repubblica: credersi unti del Signore e delegittimare il dissenso, considerandolo immorale».
Renzi obietta: con me il Pd era al 41%, senza al 18%. «Lasciamo perdere, altrimenti ricominciamo con la storia della campanella».
Che cosa chiedono dell’Italia i suoi studenti a Parigi? «L’Italia uscirà dall’euro? L’Italia è diventato un Paese razzista? No e no, ma evidentemente sono passati due messaggi inquietanti».
Giusto evocare gli Anni ‘30? «Paragone fuorviante. Meglio quello con fenomeni contemporanei. L’Italia, come Usa Francia e Regno Unito, vive una crisi di nostalgia per l’età dell’oro degli Anni ‘50 e ‘60. Trump vince volendo “fare l’America di nuovo grande”. E Brexit cos’è se non il mito di un ritorno alla Compagnia delle Indie?».
E la Francia? «Dal punto di vista sociale è il Paese più simile all’Italia: teme il futuro nella certezza che la vita peggiorerà. Con un surplus di violenza».
Senza il M5S avremmo anche noi i gilet gialli? «Non esiste controprova, ma penso di sì».
Che pensa dell’autocritica di Juncker sull’austerità? «Distinguerei. Nella prima fase della crisi l’Europa è stata miope. Dal 2012 Fondo Salvastati e bazooka di Draghi hanno impresso una svolta. Anche per l’Italia negli ultimi mesi, quando stava esplodendo lo spread».
Come si è comportata l’Ue con l’Italia sulla manovra? «Juncker ha salvato il governo e l’Italia da una crisi senza ritorno: di fronte alla sfida del balcone, avrebbe potuto lui sì usare la ruspa. Invece ha convinto il premier a tornare al tavolo e a trovare un compromesso. A maggior ragione è vergognoso che sia sbeffeggiato dai nostri governanti alla stregua di un ubriaco da bar di paese».
Come trattare i grillini: cugini siamesi della Lega o interlocutori per il futuro? «Non è più tempo di teorizzare che altri partiti sono “costole della sinistra”. Bisogna distinguere le leadership dalle motivazioni del voto. Ci sono milioni di persone che il 4 marzo hanno votato M5S, ma oggi sono in silenzio e chiedono qualcos’altro. Con loro bisogna parlare».
Con quali parole? «Con umiltà, non certo dicendo: avete visto che avevamo ragione noi? Leviamoci dalla testa che a un certo punto, all’ennesima “toninellata” o stufi delle divise indossate da Salvini, gli italiani diranno “Ops, ci siamo sbagliati, richiamiamo quelli di prima”».
Che cosa si muove nel mondo cattolico? «Non un partito religiosamente ispirato ma un attivismo molto utile, figlio del magistero di Francesco all’insegna di valori accantonati per quindici anni».
Che cosa pensa del listone repubblicano di Calenda? «Ho apprezzato molto il suo libro. L’unica cosa che non mi convince è il frontismo antipopulista, perché è il favore più grosso che puoi fare ai populisti: offri un nemico, l’unica cosa che li unisce».
Come vede lo scenario europeo dopo le elezioni? «Salvini è forte quando picchia sui migranti, ma quando chiede di fare deficit scassando le regole di bilancio resta solo, trattato dai suoi amici sovranisti come un “terrone spendaccione”. Si vedrà che il fronte populista è tutt’altro che compatto. A meno che non abbia un nemico comune schierato a difesa di un’Europa in bianco e nero e con la forfora».
Il 4 marzo è la sconfitta delle élite e dei competenti: come la vive, appartenendo a entrambe le categorie? «La politica dovrebbe riscoprire la professionalità, ma senza diventare professione. La decadenza inizia quando il Parlamento s’è riempito di politici di professione. Ai miei allievi dico: in politica entri e a un certo punto esci».
E poi magari torni? «E poi magari torni».Letta portrait