“Non inseguiamo alleanze con M5S ma ascoltiamo i loro elettori”

“Non inseguiamo alleanze con M5S ma ascoltiamo i loro elettori”


Intervista di Federico Fubini a Enrico Letta, Corriere della Sera, 23 marzo 2017

Forse perché ha passato la boa dei cinquant’anni e oggi si dedica a un mestiere nuovo, l’università, Enrico Letta ha voglia di idee diverse. Contro venti e maree, il volume dedicato all’Europa e all’Italia e appena pubblicato per il Mulino, ne è pieno. Ed è su questa scia che l’ex premier riflette con la testa sgombra anche sulla presa sull’opinione pubblica dei movimenti che ormai definire «populisti» è diventato fin troppo convenzionale.

Davvero crede che la grande contrapposizione politica oggi sia tra le forze del sistema e antisistema?
«Francamente, no. C’è una sovrastruttura artificiale messa sopra il dibattito politico nel mondo occidentale, ma soprattutto in Europa. Per motivi di comodo si è creata questa scatola con la scritta “populismi”, in cui si mette dentro di tutto».

Può essere più preciso?
«Ci si mette dentro ciò che non appartiene alle tradizionali famiglie politico-culturali del ’900. Ma le differenze dentro quella scatola ci sono, eccome. Il Front National di Marine Le Pen non è certo assimilabile al Movimento 5 Stelle, l’olandese Geert Wilders non ha molto a che fare con il leader greco Alexis Tsipras. Fra i populisti ho sentito mettere persino i liberali spagnoli di Ciudadanos. Così il populismo finisce per essere raccontato dagli altri, dall’establishment, come la peste del Manzoni».

A proposito di 5 Stelle: Pier Luigi Bersani ha appena aperto al movimento di Beppe Grillo. Che effetto le fa?
«Continuo a trovare le tesi di M5S sull’Europa preoccupanti, a partire dall’idea di un referendum sull’euro. Nel mio libro la contesto duramente. Detto questo, il tema di fondo è che ormai il 30% degli elettori guardano ai 5 Stelle e a quegli elettori bisogna parlare. Non ci si può limitare a dire che sono dei populisti e degli appestati. Non si può puntare solo a escluderli, radicalizzandoli ancora di più. Così si finisce solo per alimentare le frange di coloro che si sentono esclusi. Interpreto quel che dice Pier Luigi quest’ottica».

Veramente sono gli stessi leader grillini a ricordare di continuo che non vogliono allearsi con nessuno.
«Questo è il problema di fondo: il rifiuto delle alleanze e degli accordi. È un punto che da quattro anni, da quando esistono sul piano nazionale, li accomuna al Front National o alla destra radicale inglese di Ukip. Ed è strano, perché in fondo loro non sono la stessa cosa del Front National o di Wilders. Ma la questione del rifiuto delle alleanze è centrale. È un tema, se capisco bene, che anche Pier Luigi solleva».

Cosa si aspetta dal vertice di Roma per i 60 anni dalla firma del Trattato?
«Ho trovato quello del presidente Sergio Mattarella un bel discorso europeista. L’Ue ha bisogno di analisi nuove e di leadership che parlano con i fatti come fa Mario Draghi alla Bce e non con chiacchiere da bar come quelle di Jeroen Dijsselbloem (sul presidente dell’Eurogruppo condivido la richiesta di dimissioni da parte di Matteo Renzi). Io stesso qualche anno fa mi sentivo molto più ortodosso nel mio ragionamento. Oggi bisogna uscire molto di più dal seminato».

Può fare esempi concreti?
«Certo: oggi lavoro in un’università all’estero e quando si pensa a questo, immediatamente viene in mente la bandiera dell’Erasmus. Da sempre è l’immagine positiva dell’Europa».

Non lo è, a suo avviso?
«Vado controcorrente. Stiamo attenti: Erasmus è sicuramente un’esperienza felice, ma è anche il simbolo dell’elitismo dell’Europa. Questo è un concetto centrale nel dibattito europeo di oggi, perché l’Unione viene vista da larghe fasce di popolazione come un’istituzione fredda, che parla solo ai vincenti, ai cosmopoliti, a coloro che sono contenti della globalizzazione perché hanno studiato, viaggiano, conoscono altre lingue. Quelli che fanno l’Erasmus».

Come propone di ridurre questa frattura?
«Così Erasmus spetta a una piccola quota della popolazione, una parte di quelli che vanno all’università. Perché invece non portare progetti del genere nella scuola superiore, per raggiungere l’intera popolazione?».