Vogliamo gli Stati Uniti d’Europa

Vogliamo gli Stati Uniti d’Europa

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Il manifesto del Sole 24 Ore con i 5 punti per salvare l’euro ha il pregio d’indirizzare il faticoso dibattito sulla crisi europea nella giusta direzione. La premessa è che l’asimmetria tra l’integrazione sovranazionale della moneta e la perdurante frammentazione delle politiche fiscali ed economiche nazionali l’”euro zoppia” per citare Carlo Azeglio Ciampi – non è più sostenibile. Tedeschi e francesi hanno ritenuto che questa contraddizione, alla luce del successo dei primi anni della moneta unica, potesse perpetuarsi senza eccessive complicazioni. Allo stesso modo, l’allineamento dei tassi e la crescita sostenuta della prima metà dello scorso decennio hanno contribuito a rafforzare la percezione che l’Unione potesse, comunque, convivere con quell’asimmetria.

La crisi ha infranto ogni illusione. Applicare le 5 mosse proposte è una via per ritrovare l’equilibrio perduto. La priorità è porre il concetto di “più Europa” al centro della riflessione pubblica e dell’azione politica, in direzione inversa rispetto all’indebolimento dell’idea comunitaria consumatosi in questi anni. L’indebolimento ha investito soprattutto il ruolo della Commissione: il paragone tra il peso del Berlaymont attuale e quello avuto negli anni di Delors o Prodi ben sintetizza il passaggio tra l’Europa centrata sul metodo comunitario di ieri a quella intergovernativa, fondata sulla diarchia Merkel-Sarkozy di oggi.

C’è bisogno di più Europa. In particolare, tra le 5 mosse, gli euro project bond rappresentano un possibile pilastro della strategia di rilancio della crescita. Lo sviluppo si raggiunge investendo sul finanziamento delle reti di trasporto e di telecomunicazioni, ma anche sulla valorizzazione delle risorse immateriali e sul capitale umano. Il talento, le competenze, la cultura, la carica innovativa dei giovani europei sono la risorsa a più alto potenziale di ritorno che abbiamo.

Partendo da una delle politiche di maggior successo della Ue, Erasmus, e prendendo a modello l’esperienza della partnership pubblico-privata del fondo Marguerite, si potrebbe potenziare, per esempio, la disponibilità di risorse destinate alle politiche comunitarie di formazione internazionale o di sostegno alle startup di giovani: attraverso un fondo aperto, finanziabile con specifici euro-project bond e fondato sul microcredito. Se, inoltre, il fondo incentivasse, a tassi agevolati, gli investimenti di quanti decidono di lavorare oltre i 65 anni, si potrebbe conseguire il duplice obiettivo del sostegno all’innalzamento volontario dell’età pensionabile e di una concreta solidarietà intergenerazionale su scala europea.

Tuttavia, la riflessione non può relegarsi all’ambito solo economico o ai tecnicismi. Il dramma greco, così come le reazioni della pubblica opinione, quella ellenica e quella del resto d’Europa, hanno resuscitato stereotipi nazionalistici che credevamo sepolti. I greci e i latini son tornati i pigri e gli spendaccioni di sempre, i tedeschi gli alfieri del rigore per antonomasia, le istituzioni europee organismi tecnocratici e antidemocratici. E chi si giova politicamente di questi stereotipi farebbe bene a ricordare che proprio a Cannes, dove si tiene il G20, si consumò nel 1922 una delle prime manifestazioni d’intransigenza nei confronti della Germania di Weimar, piegata dall’inflazione e dalle riparazioni di guerra.

Sullo sfondo della crisi si colloca la questione, cruciale, del rapporto tra democrazia, capacità decisionale e sovranità popolare. Gli innegabili strappi degli ultimi mesi hanno minato la sostanza e l’efficacia delle decisioni europee, riproponendo, amplificato, il tema della legittimazione. È evidente: se le scelte dell’Europa riescono a condizionare la nascita, la vita e la caduta dei governi, e se i Parlamenti nazionali sono attori non protagonisti di provvedimenti presi altrove, sciogliere definitivamente il nodo della legittimazione democratica europea diventa indispensabile. E ciò non in ossequio a principi democratici formalistici, bensì perché, se i cittadini avvertono di non poter esprimere la sovranità in modo compiuto, finiscono col rigettare istintivamente scelte prese fuori dal Paese in cui vivono, ma che influiscono profondamente sulla quotidianità.

C’è un’altra asimmetria da correggere, oltre a quella tra politiche monetarie integrate e politiche fiscali ed economiche frammentate. È quella tra governanti nazionali votati dai popoli e decisori europei privi di legittimazione diretta. Occorre di certo coinvolgere più direttamente il Parlamento europeo nelle grandi scelte. Ma soprattutto, per fare davvero la “rivoluzione europea”, occorre la sesta e decisiva mossa: arrivare all’elezione diretta del presidente dell’Ue. Una figura che accentri in sé le funzioni oggi svolte da Barroso e Van Rompuy. Una figura che tratti alla pari col presidente degli Stati Uniti e con quello cinese. Una figura designata direttamente dal popolo europeo attraverso l’esercizio del voto democratico.

Articolo di Enrico Letta pubblicato su Il Sole 24 Ore venerdì 4 novembre 2012.