La volgarità che lega vaffa, ruspa e rottamazione

La volgarità che lega vaffa, ruspa e rottamazione

La creatività italiana è fenomenale, si sa. In politica, poi, dà il meglio di sé. O il peggio, dipende dai punti di vista. Negli ultimi anni ha imposto tre formule potenti: vaffa, rottamazione, ruspa. Tre parole, tre progetti politici a declinarle, tre leader forti a incarnarle: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini. Uomini dai percorsi e dai profili molto diversi, eppure accomunati da un tratto ben chiaro: tutti e tre si sono serviti dell’idea della distruzione dell’avversario per farsi largo e raggiungere il potere. E tutti e tre hanno giurato e spergiurato che mai, una volta raggiunto quello stesso potere, si sarebbero comportati come i predecessori. Ormai si tratta di definizioni entrate nel vocabolario degli italiani, non ci facciamo quasi più caso. Tuttavia, il carico di violenza distruttiva che portano con sé, a pensarci bene, è inedito. In fondo, si tratta di messaggi molto elementari che però trasposti in un discorso pubblico con pochi anticorpi sovvertono la regola basica del confronto democratico: il riconoscimento reciproco delle forze politiche. Rivolgersi all’avversario, quale che sia, evocando il vaffa, volendone fare rottami o minacciando di usare la ruspa, sottintende, nemmeno troppo indirettamente, l’intento opposto: la piena delegittimazione. È, dicevo, un fenomeno inedito nella storia repubblicana. Perfino gli epici scontri dei tempi di Berlusconi e Prodi paiono al confronto scambi di fioretto.
Che si tratti di messaggi efficaci non c’è dubbio. Il mix di estrema semplicità e rozzezza dialettica in tutti e tre i casi si è tradotto in un consenso elevato, con picchi di gradimento altissimi, raggiunti in un tempo ridotto. L’impatto sulla società italiana non è stato indolore. La distruzione come fine dichiarato mette in circolo ulteriori spinte disgregatrici. Così il corpo sociale, esposto a un crescendo di violenze verbali senza che vi sia alcun argine di contenimento, rischia di abituarsi a un modello tribale di lotta politica e tende a ignorare chi adotta un tono e un contegno diversi. Dopotutto, un dibattito all’insegna del rispetto dell’interlocutore e attento ai contenuti, senza battute fulminanti volte a dileggiare gli altri, non ci sembra ormai obsoleto e noioso? Temo di sì. Sia chiaro: non voglio farne una questione di galateo o somministrarvi l’elogio della noia. Non è più tempo. Credo che il confronto politico possa, anzi debba, essere serrato e duro. Voglio che i problemi si definiscano con il loro nome, che i responsabili di scelte sbagliate, se ci sono, siano chiamati in causa e rispondano pubblicamente dei propri errori, che la radicalità di idee e comportamenti prenda il posto di ipocrisia e opportunismi. Ma per tutto questo non c’è bisogno di vaffa, rottamazioni e ruspe. Anzi, questi tre messaggi sono il grande alibi, un bel nebbione, la cortina fumogena che impedisce di entrare nel merito delle questioni. Questa fuga dai contenuti, in corso da tempo, ha la volgarità di parola e di pensiero come precondizione. Perché il mandare a quel paese, il rottamare e l’asfaltare con una ruspa invalidano ogni tentativo di dialogo e lo svolgimento di un qualunque discorso argomentato. Ti passo sopra. Punto. In virtù di quale progetto? Perché sono moralmente superiore e tu corrotto, oppure perché sono giovane e veloce e tu vecchio e indolente, oppure perché io sono, per eredità storica, nazionale o etnica, l’unico e legittimo abitante e proprietario della mia terra, tu tornatene da dove sei venuto.
Scorciatoie che consentono di scappare dai problemi evitando di cimentarsi con la complessità. Un grande vantaggio in un tempo come quello attuale che ha proprio l’estrema complessità dei fenomeni come tratto distintivo. Tuttavia, se pure queste formule consentono di raggiungere il potere, poi non mettono al riparo dalla realtà, che sul medio e lungo tempo si riprende sempre la sua rivincita. Soprattutto, se arrivi al vertice in forza di un progetto distruttivo, poi ne diventi prigioniero. Quanti raccontano in privato che questi escamotage sono passaggi obbligati per rompere la bolla del potere, assicurando poi di comportarsi diversamente, s’illudono o mentono. Il fine non giustifica i mezzi. Il secondo tempo non c’è. Se hai scelto la via della radicalizzazione, e legato il giudizio su di te soprattutto a questo, poi indietro non riesci a tornare. Piuttosto che scendere nel terreno delle accuse incrociate e della rincorsa a chi insulta più forte, meglio rispondere punto per punto con la forza delle proprie idee o della verità.
Brano tratto dall’undicesimo capitolo di “Ho imparato”, Edizioni il Mulino, pubblicato su la Repubblica il 17 gennaio 2019